Luciano Moia venerdì 15 giugno 2018
Sul nostro mensile familiare, domenica in edicola, i firmatari del “Documento” su generazione e fecondità sottoscritto da esperti di diverso orientamento nel 50esimo dell’enciclica di Paolo VI.
È passata alla storia come “la profezia” di Paolo VI. Ora però, proprio sulla base di Humanae vitae, l’ultima enciclica di Papa Montini che ha visto la luce 50 anni fa (25 luglio 1968), si sta realizzando anche un “mezzo miracolo”. Non potrebbe essere definito diversamente il “Documento comune” sottoscritto da un gruppo nutrito di cattolici e di laici, che si interroga su generazione e moralità, nel tentativo di ridefinire la genitorialità responsabile alla luce delle nuove tecniche riproduttive. Gli esperti hanno preso in esame il nesso fecondità-sessualità, in uno snodo complesso che se da un lato non si stanca di mettere in luce la bellezza e la verità dei metodi naturali di regolazione delle nascite, dall’altro non rinuncia a proporre ipotesi rinnovate anche sulla base di considerazioni pastorali che nascono dalla rivoluzione evangelica di Amoris laetitia.
Ne dà notizia il numero di giugno di Noi famiglia & vita – il mensile familiare di Avvenire domani in edicola – che riporta anche il primo elenco dei firmatari. C’è un esponente della cultura laica come il filosofo Maurizio Mori, ma c’è anche il cardinale Elio Sgreccia, padre della bioetica italiana, che proprio nei giorni scorsi ha compiuto 90 anni. E poi ci sono il presidente del giuristi cattolici Francesco D’Agostino e il direttore del Dipartimento di Filosofia e scienze dell’educazione dell’Università di Torino, Renato Grimaldi. E poi la preside del Camillianum, Palma Sgreccia, il bioeticista padre Maurizio Faggioni, il moralista don Mauro Cozzoli, il teologo domenicano Giuseppe Marco Salvati, la sociologa Paola Ronfani, il vicepreside del Camillianum padre José Michel Favi, il filosofo Piergiorgio Donatelli, il sociologo Roberto Scalon, la genetista Manuela Simoni, il camilliano padre Antonio Puca, docente emerito di bioetica, il direttore di Politeia Emilio D’Orazio. Il fatto che, proprio su un argomento così divisivo come Humanae vitae, sia stato avviato un dialogo a tutto campo sui temi dell’amore e della fecondità tra laici e cattolici non può che essere salutato con favore.
Il “Documento di sintesi” scaturito dal convegno del 24 e 25 maggio scorso al Camillianum è nato dalla convinzione che pluralismo e democrazia siano conciliabili con la verità «in cui si radicano i valori del dialogo e del rispetto, la fiducia nella ragione e il riconoscimento della complessità». Le parole di Palma Sgreccia sintetizzano bene lo spirito del convegno che per due giorni ha messo a confronto filosofi, bioeticisti e teologi. Di grande rilievo i contributi presentati. Oltre agli esperti già nominati, sono interventi don Gilfredo Marengo, don Andrea Manto, Luca Savarino, il rabbino Riccardo di Segni, il filosofo Eugenio Lecaldano, la bioeticista Caterina Botti, la giurista Irene Pellizzone, il bioeticista Demetrio Neri. E non finisce qui, perché dall’Incontro nascerà un master di primo livello su “Bioetica, pluralismo e consulenza etica” organizzato da Camillianum e Università di Torino.
Il Documento di sintesi su Humanae vitae
Per la prima volta nella storia dell’umanità le persone della nostra epoca sono in grado di controllare la fertilità umana. Le questioni specifiche richiedono ancora la messa a punto di dettagli, ma le conoscenze e le capacità tecniche acquisite sono tali da far dire che nel campo della generazione umana si è aperta una nuova fase senza precedenti: sino a qualche decennio fa la generazione (nascita) di un nuovo essere umano era unicamente frutto dell’unione fisica tra uomo e donna e soggiaceva ai meccanismi del processo biologico visto o come qualcosa di autonomo e casuale, o con un rimando alla metafisica o, per i credenti, con una connessione alla volontà divina. Ora che anche il processo della generazione umana è stato fortemente secolarizzato, la acquisita capacità di controllo della generazione è una realtà assodata e non più eludibile, pertanto si affacciano con forza i problemi etici circa la fruibilità delle nuove tecniche riproduttive e circa il loro impatto sulla genitorialità.In questa nuova situazione storica ci si deve chiedere se le nuove tecniche siano moralmente lecite oppure no, e se lo sono entro quali limiti esse possano essere recepite, e quali prospettive esse aprano per la genitorialità responsabile.
A prescindere dagli aspetti su cui c’è disaccordo, i seguenti paiono essere punti fermi condivisi:
1. La nascita di ogni nuova persona è un fatto moralmente e socialmente molto rilevante.
2. In quanto consente la generazione di nuove persone, la fertilità umana è un bene, a prescindere dal fatto che tale capacità venga poi effettivamente esercitata.
3. Eventuali interventi tecnici sulla fertilità umana non riguardano solo il corpo, ma la dimensione relazionale della persona, e forse anche la sua dimensione identitaria profonda.
4. Il processo generativo deve essere responsabile, rispettoso di tutte le relazioni in gioco.
5. La generazione di un nuovo nato è ben più che una mera dinamica biologica, ma è un atto che ha un rilievo antropologico di primaria importanza e coinvolge una decisione etica significativa.
6. È importante aver chiari i criteri della capacità genitoriale: accogliere e custodire il figlio, riconoscerlo nella sua autonomia, promuoverne lo sviluppo integrale, qualità che sono l’opposto del possesso e dell’indifferenza.
Mentre c’è convergenza sull’invito di Humanae vitae alla genitorialità responsabile, c’è dissenso sul controllo della generazione soprattutto se attuato attraverso la tecnica. La lezione antropologica di Humanae vitae, che riafferma il nesso inscindibile tra sessualità e generazione, apre alcune questioni di fondo:
1. Se la vita di una persona abbia sempre valore a prescindere dalla sua capacità di autorealizzazione oppure no.
2. Se il nesso tra sessualità e fecondità sia tale da escludere la liceità morale del controllo della natalità e ammettere solo la regolazione naturale.
3. Se la natura biologica in ambito riproduttivo segni i limiti antropologici della persona o se invece l’operare tecnico possa spostarne i confini in base all’autodeterminazione riproduttiva.
4. Se sia lecito l’uso commerciale del corpo.
Senza pretesa di essere esaustivo, questo Documento di sintesi vuole mappare alcuni dei temi oggi in discussione al fine di favorire la convergenza ove possibile, e chiarire alcuni degli aspetti ancora aperti.Affinché tale chiarimento sia facilitato è rilevante comprendere l’apporto del Magistero della Chiesa elaborato fino ad oggi e delle altre posizioni culturali ed è altrettanto auspicabile mantenere aperto questo dialogo che noi sottoscritti auspichiamo.
“Io punito perché fedele a Paolo VI”
Il nuovo numero di “Noi” dà spazio, sempre sul tema di Humanae vitae, anche a un’intervista con Gianni Gennari, da oltre trent’anni collaboratore del nostro quotidiano ma, mezzo secolo fa, giovane teologo moralista che spiegava la “non infallibilità” dell’enciclica di Paolo VI. Era stato lo stesso pontefice a chiederlo ma per quella scelta Gennari non ebbe più il permesso di insegnare
Ecco qualche passaggio dell’intervista,
Perché Paolo VI decise di non ascoltare il parere della Commissione e ascoltò invece di chi gli consigliava di non staccarsi dalla tradizione?
La risposta è semplice: delicatezza e prudenza di Paolo VI, che conosceva bene le resistenze della Curia, e che negli anni precedenti aveva visto anche le nubi dei contrasti tra gli innovatori che si ispiravano al Concilio e le resistenze delle scuole (per esempio la Lateranense contro la Gregoriana per i problemi della esegesi, fatto che aveva preoccupato persino papa Giovanni). Perché dunque Paolo VI accolse il suggerimento di minoranza? Perché evidentemente prese visione delle due relazioni, una di maggioranza che auspicava una via nuova e una di minoranza che dichiarava immutabile l’insegnamento precedente, risalendo alla Casti Connubii di Pio XI … Accadde però che queste due relazioni a sorpresa furono rese pubbliche senza un permesso esplicito, e la cosa fu vista anche come un tentativo di forzare la mano del Papa stesso, ma soprattutto pesò molto il fatto che un gruppo ristretto di cardinali di Curia, tra i quali Ottaviani e probabilmente Ciappi e Bacci, con altri che erano sempre stati diffidenti nei suoi confronti, gli espressero di persona e con durezza la loro catastrofica convinzione: toccare questo punto di dottrina e di disciplina voleva dire rovesciare del tutto la credibilità del Magistero papale e della tradizione cattolica. E lui, delicato e rispettoso come sempre, decise per l’Humanae vitae, ma ancora con una percezione umilmente chiara, quella che si manifestò al momento della pubblicazione sia nella voce di monsignor Lambruschini sia in alcune situazioni successive nelle quali egli stesso si espresse con apertura nuova, almeno di sentimento…
Come andò la vicenda di monsignor Lambruschini?
Monsignor Ferdinando Lambruschini era ordinario di teologia morale, unico, alla Facoltà teologica del Laterano. Uomo di grande cultura e di orientamento piuttosto aperto. Sono stato suo alunno negli anni 1961-1966. Paolo VI volle affidare a lui, preferito a tutti gli altri docenti moralisti delle università pontificie e della Curia, il compito di essere suo portavoce per l’annuncio e la presentazione alla stampa mondiale di Humanae vitae. Negli incontri preparatori ebbe sempre la cura di raccomandargli di dichiarare che l’Enciclica nella sua normatività non era garantita dal carisma della cosiddetta infallibilità “in docendo”. E Lambruschini, prudente com’era, obbedì con chiara lealtà. Lo conoscevo abbastanza bene, ricambiato. La pubblicazione fu clamorosa, e fu una tempesta sulla stampa, nelle radio, nelle televisioni di tutto il mondo. Lui fu anche accusato, dall’interno della Curia, di aver tradito l’ordine di Paolo VI. Ma papa Montini da parte sua fece chiaramente intendere che la realtà era proprio quella e infatti, concludendo uno dei primi incontri successivi alla pubblicazione, di fronte alla folla delle udienze, parlò esplicitamente delle reazioni anche negative alla pubblicazione di Humanae vitae, aggiungendo a braccio: “Benedico quelli che la avevano accolta, ma benedico anche quelli che avevano espresso la loro critica”.
E Lambruschini?
Evidentemente negli ambienti del Laterano, ancora guidato dalla scuola tradizionalista illustre, e che vedeva Paolo VI con sospetto antico e ostilità rinnovata, la sua fedeltà all’ordine del Papa fu non gradita. Fatto sta che quasi subito, a dicembre 1968, fu “promosso” alla cattedra di arcivescovo di Perugia, e fu sostituito nella prima cattedra da Ermenegildo Lio, moralista di antica, anzi antichissima scuola, che sosteneva e sostenne a lungo, fino alla morte, che la norma della Humanae vitae era pienamente infallibile.
Anche la tua vicenda personale è strettamente intrecciata a quella di Lambruschini…
Sì, ero andato, con altri, a visitarlo a Perugia come suo alunno, ma anche come possibile successore in quella cattedra. E lui mi confidò tranquillamente tutte le sequenze di quella vicenda, che lo aveva visto fedele alla richiesta di Paolo VI e poi, proprio per questo, di fatto allontanato dalla cattedra. Era malinconico e deluso.
Come teologo moralista, al di là del fatto che anche Paolo VI aveva richiesto proprio questa formula, perché sei convinto della “non infallibilità” di Humanae vitae?
Non sono mai riuscito a farmi convincere che nella morale cattolica e cristiana la differenza tra regolazione della natalità con metodi cosiddetti naturali e con metodi cosiddetti contraccettivi, ovviamente non abortivi, sia una scelta tra bene e male. Credo di poter affermare a questo punto – anche se a chi è convinto del contrario questa mia conclusione apparirà come troppo debole e implicita – che l’opzione fondamentale della vita intera, come coerenza globale al Vangelo, e non solo di quella relativa alla scelta dei metodi di regolazione della fertilità, è il criterio da applicare con equilibrio e rispetto in ogni circostanza. Esemplare, convincente e positiva mi è sempre apparsa la breve parola del carissimo patriarca Atenagora, colui che alla fine del Concilio con altri suggellò la remissione delle reciproche scomuniche, e che parlando della morale familiare, rivolto agli sposi affermava così: «Io sacerdote celebro il vostro matrimonio all’altare del Signore, e vi accompagno verso la vostra vita intera, ma giunto alla soglia del vostro talamo nuziale mi fermo. Lì, infatti, i veri sacerdoti siete Voi!».