Suicidio assisito e Ippocrate. Perché la richiesta di Mario il marchigiano è una “vittoria”

di Maurizio Mori

Lo si voglia o no, è ormai da tempo che il paradigma ippocratico non regge più ed è stato abbandonato. Ora dobbiamo prendere atto che anche l’esistenza stessa non è più categorizzata nei termini binari di vita/morte, ma come minimo prevede una tripartizione; e che quando si entra nel fine-vita la priorità etica diventa “evitare la condizione infernale” (e non è più quella tradizionale e sacrosanta di “evitare la morte” che ovviamente rimane prioritaria nella “vita”)

Il caso concreto di Mario il marchigiano, e la domanda ultima da farsi
Dopo una serie di stop and go, oggi venerdì 11 febbraio pare sia stato dato il via libera alla richiesta di suicidio medicalmente assistito avanzata da Mario il marchigiano (nome di fantasia).  Avvalendosi di quanto stabilito dalla Sentenza 402/2019 della Corte Costituzionale nel caso Antoniani-Cappato, Mario il marchigiano, 43 anni, tetraplegico e malato da 11 anni, soddisfa le condizioni previste dalla Sentenza della Corte Costituzionale e chiede di procedere. Ci sono state difficoltà e resistenza, ma ora pare che il percorso si sia appianato, e siamo in attesa di vedere quel che accadrà.

È questo un periodo molto intenso per il fine vita. Oltre alla consueta litania di lamentele contro il Parlamento che non legifera con prontezza in materia, in vista della discussione al Senato già a metà gennaio era intervenuta Civiltà cattolica con una posizione “possibilista” sulla Proposta di Legge in esame.

Poi, mercoledì 9 febbraio, mentre il Parlamento si accingeva a esaminare il testo, il papa ha esplicitamente e duramente condannato la morte volontaria assistita, suscitando riserve per la palese interferenza nella vita politica italiana.

Mentre il dibattito parlamentare sul tema riprenderà a breve, nella settimana entrante la Corte Costituzionale deciderà circa l’ammissibilità del Referendum abrogativo di parte dell’art. 579 c.p. riguardante l’omicidio del consenziente che potrebbe rendere lecito il suicidio senza condizioni. Insomma, il fine-vita è al centro del dibattito.

In questo contesto di attenzione al tema, può essere opportuno tornare a riflettere sul significato etico e filosofico della richiesta di Mario il marchigiano di accedere alla morte volontaria medicalmente assistita. Delle tante questioni coinvolte, ne intendo approfondire una in particolare, ossia la seguente: chiedere di essere aiutati a morire è sempre una sconfitta o può essere a volte una vittoria? In termini più articolati: chiedere di essere aiutato a morire è sempre un gesto di disperazione nichilista che nega (o offusca) la libertà stessa della persona, o può essere un atto di positiva libertà a tutela della propria dignità e della pienezza del proprio progetto di vita?

La risposta del tradizionale paradigma ippocratico: la vita è sempre buona e la morte sempre una sconfitta
Rispondere alla domanda sopra formulata equivale a chiarire quale valore abbia la vita umana e dove stia questo valore. Prima ancora che il caso di Mario il marchigiano diventasse di pubblico dominio, il quotidiano Avvenire del 18 novembre 2021 ben condensava il messaggio della CEI (la Conferenza Episcopale Italiana) per la Giornata per la Vita del 6 febbraio 2022 con le seguenti parole: “Terminare una vita non è mai vittoria. Vero diritto è custodire la vita”.

Nel testo le parole del cardinal Bassetti precisano “che non vi è espressione di compassione nell’aiu­tare a morire, ma il prevalere di una concezione antropolo­gica e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali. […] Mettere ter­mine a un’esistenza non è mai una vittoria, né della libertà, né dell’umanità, né della democrazia: è quasi sempre il tragi­co esito di persone lasciate so­le con i loro problemi e la loro disperazione”.

Il “quasi” è frutto di una svista o di un lapsus calami, perché la sua presenza farebbe saltare l’intero discorso: se anche solo una volta il terminare una vita non fosse l’esito di disperazione o di qualcosa di simile, allora almeno in quel caso l’atto sarebbe una vittoria e tutta la prospettiva cadrebbe! A parte il lapsus, il messaggio CEI ben esplicita la prospettiva “pro-vita” nel senso letterale di “a-favore-della-vita” secondo cui vivere è sempre qualcosa di positivo e di buono: a prescindere dalle circostanze vale sempre la pena vivere.

In questa linea, la senatrice Paola Binetti ha osservato che nel caso di Mario non sia inappropriato “si possa parlare di vittoria per nessuno e neppure che ci si possa rallegrare perché un uomo morirà” (“Suicidio assistito: Binetti, vittoria per morte uomo? Intollerabile”, 23 novembre 2021). Sulla stessa linea e tono Luigi Manconi: “qui non si celebra una vittoria, perché lo spegnersi di una vita umana non è mai un evento felice e nemmeno mai una soluzione” (L. Manconi, “La diserzione della politica”, La Stampa, 23 novembre 2021).

Il pessimismo-nichilista non è valido, ma è cambiato il modo di categorizzare l’esistenza umana

La risposta data sulla scorta del paradigma tradizionale è attraente e valida quando messa in contrasto con la posizione diametralmente opposta rappresentata dal pessimismo-nichilista, la tesi per cui sarebbe sempre meglio non-nascere che nascere, sempre preferibile il nulla all’essere. È vero che l’esistenza spesso spessissimo è irta di tante e gravi difficoltà, ma ciononostante vivere è bello e anche entusiasmante. Il pessimismo nichilista è inadeguato.
Chi è entusiasta della vita è attratto dall’ippocratismo, ma non può non osservare che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso il nostro modo di guardare l’esistenza è profondamente cambiato. Un tempo, per parlare dell’esistenza avevamo due sole categorie, la vita e la morte: o si era vivi, e ciò significava grosso modo essere vispi e gioiosamente presenti a sé stessi, o si era morti, cioè passati rapidamente al nulla o al non-essere.

Oggi, invece, quando parliamo della vita umana la si incasella in quattro categorie diverse:
1) l’inizio-vita,
2) la vita (biografica e autobiografica),
3) il fine-vita,
4) la morte.

Non posso qui esaminare i tanti problemi specifici di ciascuna categoria, ma va preso atto come ormai il cambiamento categoriale rilevato sia consolidato: la Legge 40/04 regola l’inizio-vita, mentre la Legge Lenzi n. 219/17 riguarda il fine-vita.

Qui limito la mia attenzione al fine-vita, e rilevo che la nuova categoria si è imposta perché i grandi progressi realizzati dalla Rivoluzione biomedica ci consentono oggi di diagnosticare le malattie con largo anticipo, così che la morte non è più né imprevista, né breve, né prematura, né improcrastinabile com’era un tempo. Siamo oggi in grado di sostenere la vita per lungo tempo, tanto che a volte si crea il cosiddetto “accanimento terapeutico” e altre si ha come esito lo “stato vegetativo permanente” in cui la vita biografica è persa per sempre e resta solo la vita meramente biologica. Per questo, quasi inconsapevolmente, oggi la fase finale della vita è incasellata in una categoria a parte rispetto al resto della vita. L’introduzione di questa nuova e specifica categoria cambia l’intero paradigma concettuale e comporta un nuovo modo di guardare tutta la vita stessa.

La nuova categoria del fine-vita e la creazione della “condizione infernale”
Quando vita e morte sono le due sole categorie entro cui incasellare l’esistenza, ciascuna di esse è assoluta nel proprio ambito, cioè vale in sé a prescindere dalle circostanze: la logica è del tutto o niente. Il paradigma è tale per cui o si è pro-vita (si dice che è bella) o si è nichilisti (si dice che è brutta), e tertium non datur.

Ciò capita perché in questo quadro concettuale la vita è qualcosa che riguarda la condizione terrestre, ossia la situazione caratterizzata da consapevolezza di sé (autobiografia), orizzonti aperti e dai tanti alti e bassi dell’esistenza. È noto che vivere è spesso difficoltoso: facendo leva su questo il nichilista sottolinea che i bassi prevalgono e che vivere è soffrire, per cui la morte è un guadagno per l’interessato, in quanto ci fa passare dal segno meno (i dolori dell’esistenza) allo zero della non-esistenza.

D’altro canto, chi rifiuta il nichilismo non nega che la condizione terrestre sia a volte molto tribolata e difficoltosa, ma osserva che il vivere comporta orizzonti aperti al futuro con la possibilità di superare i bassi dell’esistenza e di gustare il “sugo della vita”: esperienza che rende positivo il saldo complessivo del vivere, cosicché la morte è una perdita secca (un male, una sconfitta) che ci fa passare dal segno più allo zero della non-esistenza. È in questo quadro che il cardinal Bassetti può dire che “terminare una vita non è mai una vittoria”.

Se, però, tra la vita e la morte introduciamo la nuova fase del fine-vita, allora l’intero paradigma cambia e con esso deve cambiare il nostro sguardo sull’esistenza. Quando le categorie sono solo vita/morte, il passaggio dall’una all’altra è qualcosa di simile al tuffo che dal dirupo assolato ci porta direttamente nelle acque profonde. Sino a un momento prima era possibile guardare lontano a orizzonti aperti, poi un momento dopo tutto si chiude e si passa dal (complessivo) più della vita allo zero della morte.

La presenza del fine-vita come nuova terza categoria tra la vita e la morte comporta qualcosa di simile all’affiorare di un bagnasciuga che sta tra il dirupo assolato e le acque profonde. Questo nuovo territorio è ancora poco esplorato e poco conosciuto, ma già sappiamo che in esso, per forza di cose, l’orizzonte di vita è meno aperto rispetto a prima: l’individuo non sta più in cima al dirupo da cui può guardare lontano, ma ora si trova di poco sopra l’acqua e il suo orizzonte è più limitato.

Può darsi che quest’aspetto di per sé non alteri più di tanto il segno positivo della sua generale condizione terrestre, e questo è ciò che capita nei tanti casi in cui l’allungamento dell’esistenza ha aggiunto “anni alla vita” e costituisce una crescita di civiltà. Può darsi, però, che l’acqua salga e che il bagnasciuga diventi umido e sgradevole al punto da rendere negativa la qualità della condizione terrestre. A volte la crescita dell’acqua è temporanea, e passata la marea l’individuo si ritrova all’asciutto e contento.

Altre volte ancora, invece, l’acqua rimane sempre alta e allora la condizione terrestre si trasforma in condizione infernale, in quanto il malcapitato resta sul bagnasciuga inondato dall’acqua senza possibilità di uscirne. È soprattutto la possibilità che si crei la condizione infernale a cambiare il quadro logico del discorso: situazione che, fuor di metafora, è infernale in quanto in essa l’individuo umano sta permanentemente in una situazione negativa, o perché è privo di consapevolezza di sé, senza possibilità di ritorno all’autobiografia (stato vegetativo permanente) o perché soffre senza rimedio e l’orizzonte ormai limitato preclude la possibilità di ripristinare una qualche situazione di segno positivo.

Da quel che ha scritto in una sua lettera al quotidiano La stampa (18 agosto 2021), Mario il marchigiano sembra esser finito nella condizione infernale: “La mia dignità mi ha portato a sopportare questa condizione [di umiliazione profonda] ma c’è un limite ed io questo limite l’ho oltrepassato. Quel poco di forza rimasta la voglio usare per ottenere una morte dignitosa per me […] Chiedo solo di essere libero di porre fine alle mie sofferenze […] Chi ha il diritto di dirmi di continuare a soffrire?”.

Perché nel fine-vita aiutare a morire può essere una “vittoria”
Non appena si introduce il fine-vita come nuova categoria, è inevitabile riconoscere anche che in tale fase si possa creare la condizione infernale in cui la qualità della vita è sempre di segno negativo, così che vivere è una tortura peggiore dello zero della morte. Basta introdurre la nuova categoria e la vita cessa di avere sempre valore positivo a prescindere, e (all’inverso) lo stesso accade con la morte: non è più vero che la vita sia sempre buona e che la morte sia sempre una perdita secca, ma prima di dirlo si devono considerare le circostanze. Da valori assoluti che erano, cioè valori a prescindere, vita e morte diventano valori condizionati. Ecco perché l’introduzione della nuova categoria del fine-vita ci obbliga a cambiare radicalmente il paradigma concettuale e a ragionare in modo diverso.

In questo nuovo quadro dobbiamo riconoscere che sul bagnasciuga a volte di fatto si crea la condizione infernale in cui il segno della qualità di vita è sempre negativo senza possibilità di ritorno al più. Per chi si trova nella condizione infernale, la morte è un guadagno che fa passare dal segno sempre meno dell’inferno allo zero della non-esistenza. Rispetto alla condizione infernale, la morte costituisce un miglioramento, e pertanto possiamo dire che terminare una vita in quella circostanza è “una vittoria”, e anche un atto di solidarietà. Ecco perché Mario il marchigiano riscuote tanta solidarietà e le parole del cardinal Bassetti e degli altri suonano come esortazioni retoriche che scivolano via come acqua sulla carta oleata e hanno poca presa.

Tuttavia, Binetti e Manconi possono replicare che la conclusione raggiunta vale sì quando si ragiona in termini di maggiore o minore benessere (con i segni più e meno), ma non ove ci si muovesse in una prospettiva di “orizzonte di senso” in cui si considera la progettualità esistenziale più che il piacere o dolore. In questa diversa prospettiva Manconi e Binetti possono sottolineare che non c’è nulla da “celebrare” o di cui “ci si possa rallegrare” nello spegnersi di una vita, perché la morte di una persona comporta sempre una tragedia in quanto pone fine a progetti aperti. Al di là dei più e dei meno di benessere, la richiesta di essere aiutato a morire di Mario è pur sempre “il fallimento di una società che non è stata in grado di prendersi cura di lui” (Paola Binetti).

Questa tesi di vale quando le categorie sono solo due, così che vita e morte sono due totalità indivise e la valutazione rispetto all’orizzonte di senso di ciascuna categoria è complessiva. Nel momento in cui riconosciamo la fase intermedia del fine-vita, il quadro logico-concettuale cambia perché veniamo a introdurre un porzionamento o una partizione di ciò che prima era il “tutto” o l’“intero” della vita. Dopo aver “frazionato” o “porzionato” la vita, non possiamo poi più applicare la valutazione complessiva dell’intero alle singole parti, ma dovremo valutare ciascuna parte sulla scorta dello specifico proprio orizzonte. Ciò significa che, quasi per magia, anche la fase finale della vita diventa qualcosa di analogo o di equipollente a una qualsiasi altra “fase della vita”, per esempio una vacanza, un corso di studi, e via dicendo.

Ciò significa che rispetto all’orizzonte di senso possiamo sì riconoscere che la fine di una vita che termina tanti progetti ha sempre qualcosa di tragico, ma vanno poi distinti due diversi sensi di tragico. Supponiamo di aver programmato una bella vacanza, di aver preparato tutto, e di essere pronti a partire con l’entusiasmo al massimo: il giorno prima della partenza arriva il lockdown per la pandemia Covid-19 che blocca tutto. Un fallimento totale che genera una tragedia vera che rivela la caducità, la labilità e precarietà dei programmi che, spazzati via anzitempo, troncano brutalmente l’orizzonte di senso.

Supponiamo ora, invece, di essere al termine di una splendida vacanza e prossimi al ritorno alle asperità della vita: anche in questo c’è qualcosa di tragico, ma si tratta di una tragedia nobile dove la nobiltà della tragedia è proporzionale alla grandezza del progetto realizzato. Per questo, alla fine di una bella vacanza si fa anche una festa per celebrare la chiusura del periodo felice: queste feste hanno davvero un che di tragico-nobile, ma coronano il programma e rappresentano la celebrazione di una vittoria.

Può sembrare strano, ma la distinzione tracciata tra i due sensi di “tragico” attraverso l’analogia con le vacanze (o altra fase della vita: per esempio un corso di Master o un progetto di lavoro, etc.) vale anche per il fine-vita e per la morte. Ove questa arrivasse anzitempo nel fiore degli anni, quando l’orizzonte è aperto a tanti piani di vita in attesa di essere realizzati, la morte sarebbe davvero una tragedia vera, che rivela appieno la caducità e labilità dell’esistenza: un fallimento. Quando però la morte arriva alla fine della vita, dopo che i progetti sono stati portati a termine e l’orizzonte di vita si è per forza di cose chiuso, essa è una tragedia nobile in quanto rappresenta la necessaria e prevista chiusura del progetto. Non avviene anzitempo ma è qualcosa che completa e corona il programma stesso.

Se le considerazioni fatte valgono, anche nella prospettiva che mette al centro l’orizzonte di senso si deve riconoscere che, una volta introdotta la categoria del fine-vita, la richiesta di essere aiutati a morire può diventare una tragedia-nobile, cioè una “vittoria” che ha in sé qualcosa di buono e di gioioso. Anzi, da questo punto di vista la chiusura della vita può diventare l’analogo dell’ultimo gesto che completa il piano di vita. Si continua a credere che la morte sia sempre una sconfitta solo se si resta ancorati a due sole categorie, anche quando invece il discorso ormai ne prevede come minimo tre.

Fine-vita e cambiamento degli scopi della medicina (ippocratica)
L’ultima obiezione da esaminare è quella mossa dal Centro Scienza & Vita, per il quale la richiesta di Mario costituisce “una sconfitta per l’esercizio della medicina, il cui plurisecolare paradigma di dedizione assoluta alla cura e all’assistenza delle persone malate, sempre in favore della vita, viene adesso sovvertito […] includendo in quell’assistenza anche la possibilità di “dare la morte” intenzionalmente” (“Scienza & Vita: la scelta suicidaria di Mario non è una “vittoria”, ma la sconfitta di tutti noi”, 23 novembre 2021). L’idea qui è che l’ammettere un eventuale aiuto a morire trasformerebbe in modo indebito i tradizionali scopi della medina, che da Ippocrate in poi ha tassativamente proscritto tale compito.

Si può obiettare che questo modo di intendere gli scopi della medicina è troppo meccanico e letterale: quando in passato la medicina era poco efficace, ottimo era l’impegno profuso per sostenere sempre la vita al fine di evitare che fosse troncata anzitempo, precludendo la morte di gustare il “sugo della vita” e il resto di l’autorealizzazione possibile. Ma ora, che la medicina sa fare molto, il problema è quello opposto ossia di contenersi per evitare l’accanimento terapeutico che crea forme di condizione infernale non dissimili a quelle create dalla tortura. Lo straordinario aumento delle capacità tecniche ha radicalmente cambiato le condizioni di intervento e ciò impone un ripensamento di ciò che la medicina deve fare. Non è escluso che, nelle nuove circostanze storiche, tra i doveri del medico sia incluso anche quello di rispondere alla richiesta di aiuto a morire.

Può darsi che far questo non sia affatto tradire “l’impegno di solidarietà, vicinanza e condivisione verso i più fragili e bisognosi” (Scienza & Vita), perché oggi i più fragili e bisognosi sono coloro che finiscono nella condizione infernale e chiedono di uscirne nell’unico modo possibile, ossia grazie all’aiuto a morire. Una medicina come professione di servizio alla persona che non si sottrae all’impegno di solidarietà, vicinanza e condivisione coi più fragili non può non considerare che tra i propri scopi c’è anche quello di evitare la condizione infernale. In altre parole: quando vita e morte erano le due sole realtà (categorie), evitare la morte significava di per sé ridare la vita (piena), mentre oggi, che le categorie sono (almeno) tre, evitare la morte può voler dire far finire nella condizione infernale (peggiore della morte). Ecco perché l’assistenza sanitaria deve cambiare registro, includere tra i propri scopi anche l’aiuto al morire, e chiudere con il paradigma ippocratico e la correlata etica della sacralità della vita.

Come si è andati oltre Tolomeo, così oggi si deve andare oltre Ippocrate
Lo si voglia o no, è ormai da tempo che il paradigma ippocratico non regge più ed è stato abbandonato. Da più di un secolo nessun medico fa più ricorso alle categorie concettuali proprie della medicina qualitativa (bilioso, accidioso, etc.), e il quadro conoscitivo concernente i processi del corpo è radicalmente cambiato. Ora dobbiamo prendere atto che anche l’esistenza stessa non è più categorizzata nei termini binari di vita/morte, ma come minimo prevede una tripartizione; e che quando si entra nel fine-vita la priorità etica diventa “evitare la condizione infernale” (e non è più quella tradizionale e sacrosanta di “evitare la morte” che ovviamente rimane prioritaria nella “vita”).

L’ammissione della morte volontaria medicalmente assistita è un ultimo passo nello smantellamento dell’antico paradigma ippocratico: un processo che ormai da tempo è nelle cose e che attende solo di essere riconosciuto sul piano simbolico e formale (dove, invece, per spirito cerimoniale, si continua a pontificare con l’antico registro).

Abbandonare il riferimento ideal-simbolico a Ippocrate non è né negare la grandezza né misconoscere la genialità del Corpus Hippocraticum, ma è semplicemente è prendere atto che ormai quel paradigma è desueto. Anche Tolomeo è stato un genio. Troppo spesso dimentichiamo che il suo sistema astronomico ha fornito una grandiosa spiegazione del mondo: una delle migliori mai elaborate nella storia, peraltro non priva di risvolti politici e morali. Quando però dal paradigma tolemaico si è passati a quello copernicano, Tolomeo ha cessato di essere un simbolo per gli scienziati del settore, e oggi astronomi e fisici hanno come modello Galilei, Newton,e Einstein, non Tolomeo. Per la medicina una difficoltà al cambiamento di modello sta nel fatto che l’impresa medica è frutto di collaborazione e non c’è un singolo scienziato che spicca nettamente sugli altri, per cui è difficile trovare un nuovo riferimento singolo. Un’altra difficoltà è che l’antichità del simbolo garantisce al settore quel continuum che conferisce un che di nobile che affascina e avvince.

Tuttavia, la richiesta di Mario il marchigiano mostra che oggi anche gli ultimi baluardi (quelli etici) del paradigma ippocratico sono in via di smantellamento. Invece di continuare a avere il riferimento al lontano passato, è auspicabile che anche in ambito sanitario entri il futuro, e si faccia qualcosa di analogo a quanto è già capitato in ambito fisico-astronomico: come in astronomia il riferimento simbolico non è più a Tolomeo, così anche in medicina si abbandoni il riferimento a Ippocrate e se ne assuma uno nuovo. Ciò aiuterebbe il rinnovamento e lo svecchiamento dell’etica, con un vantaggio di tutti.

Non è innocuo il continuare a richiamare il totem del Giuramento d’Ippocrate: assumerlo come simbolo può essere negativo perché oggi impianto e molti precetti del Giuramento sono diventati obsoleti, e la loro riproposta anche solo sul piano simbolico può creare danni. Urge riallineare paradigma e simboli alle nuove esigenze scientifiche e morali, per evitare che in qualche modo si continui a far finire la gente nella condizione infernale. Anche per questa lezione morale dobbiamo ringraziare Mario il marchigiano.

Maurizio Mori
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica

 

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1 thoughts on “Suicidio assisito e Ippocrate. Perché la richiesta di Mario il marchigiano è una “vittoria””

  1. Nel congratularmi con il prof. Mori per la sua lucida quanto puntigliosa argomentazione volta a confutare la tesi che la morte sia sempre e comunque una sconfitta mi limito a sottolinearne una breve porzione che condivido convintamente:
    “Quando però la morte arriva alla fine della vita, dopo che i progetti sono stati portati a termine e l’orizzonte di vita si è per forza di cose chiuso, essa è una ‘tragedia nobile’ in quanto rappresenta la necessaria e prevista chiusura del progetto.
    Non avviene anzitempo ma è qualcosa che completa e corona il programma stesso.”

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