Referendum Eutanasia legale – intervista a Mario Riccio, il dottore che aiutò Welby

Intervista di Giovanna Trinchella su Il Fatto Quotidiano | 29 AGOSTO 2021

Referendum Eutanasia legale – Mario Riccio, il dottore che aiutò Welby: “Io credo nel dovere morale del medico di portare a morte un paziente. Perché è la medicina a creare situazioni che non esistevano in passato”

L’INTERVISTA – “La medicina, che non è infallibile, molto spesso ha condotto i pazienti nella condizione di richiedere la morte immediata”. Ora l’anestesista spera che dopo l’approvazione di un testo base la legge “non sia una truffa” escludendo con la clausola del sostegno vitale la maggio parte delle persone che potrebbero richiedere la morte medicalmente assistita.

Un impegno proseguito con il caso di Eluana Englaro fornendo aiuto e sostegno al padre Beppino che si rivolse alla Consulta di Bioetica di cui Riccio fa parte ancora prima del caso Welby; un servizio che si è esteso fornendo consulenze professionali per l’associazione Luca Coscioni per i casi di Dj Fabo e Davide Trentini. È anche grazie al dottor Riccio se Marco Cappato e Mina Welby sono usciti indenni dai processi in cui erano accusati di aver aiutato questi due uomini a portare fino in fondo la loro scelta.

Nei giorni in cui la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia legale punta l’obiettivo di un milione di firme Ilfattoquotidiano.it, che sostiene fin dall’inizio questa iniziativa e ha dedicato al tema una serie di approfondimenti raccolti in una sezione speciale del sito, ha raccolto il timore di Riccio, responsabile del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore (Cremona), che la legge che potrebbe arrivare a discussione possa essere “una truffa” escludendo di fatto la maggior parte delle persone che potrebbe chiedere la morte medicalmente assistita.

Dottor Riccio la battaglia per la morte medicalmente assistita la combatte da sempre nei fatti. Qual è il suo punto di vista da medico?
Io credo nel dovere morale del medico di portare a morte un paziente. So che la mia deontologia è differentissima dalla deontologia ufficiale. Ma l’articolo 17 del codice deontologico dei medici è un romanzo: ha subito nel corso del tempo tantissimi cambiamenti. Sia dopo le vicende Welby ed Englaro che dopo la sentenza Fabo. L’ordine dei medici all’inizio è andato in totale confusione. Nei giorni precedenti venne detto che il medico non avrebbe mai potuto partecipare ad atti che comportino la morte del paziente. Poi fu detto che il medico sarebbe andato incontro a sanzioni: un fatto gravissimo perché la sanzione a cui si alludeva era la radiazione, quella che ho rischiato io nel 2006 e dire a un medico “ti radio dall’albo” significa metterlo in mezzo a una una strada perché non può più lavorare. Sostanzialmente fu lanciata una fatwa, una roba a livello talebano. Poi qualcuno ha spiegato che il codice deontologico non può andare contro la legge e qualcun altro ha ricordato che il codice, per esempio, fu cambiato ai tempi della legge sull’aborto.

Perché dovrebbe essere un dovere del medico portare a morte un paziente?
Perché è la medicina che molto spesso ha condotto i pazienti nella condizione di richiedere la morte immediata. Perché la medicina moderna, né quella di Ippocrate né quella di 20-30 anni fa, crea oggi situazioni che non creava in passato: Dj Fabo, Eluana Englaro e Piergiorgio Welby e tanti altri casi. Non esistevano perché la medicina non li creava, così come non creava delle prognosi lunghe per i pazienti tumorali. Una volta fare una diagnosi di tumore molto spesso significava fare una diagnosi di morte. Per chi aveva un tumore, in mancanza di chemioterapia, radioterapia e interventi chirurgici complessi, la prognosi era brevissima. Oggi la medicina offre diverse soluzioni e a volte ci sono incidenti di percorso come Eluana Englaro, Fabo e Welby, cioè pazienti che vengono a trovarsi in una condizione in cui non avrebbero voluto trovarsi. La medicina ha creato queste condizioni ed è quindi un dovere del medico dire “siamo partiti insieme in un percorso in cui speravamo di ottenere il massimo, magari anche la guarigione, abbiamo invece ottenuto solo qualcosa di peggiorativo”. Ed è un dovere dare la morte a chi a questo punto lo richiede.

La cura insistita che non guarisce così sembra diventare un mostro, qualcosa di cui avere la paura
Chi aveva un tumore al polmone fino a 20 anni moriva molto rapidamente, oggi può essere curato ma non tutte le volte va bene. Cioè ci si piò trovare in una condizione di grave sofferenza, magari attaccato a un ventilatore, senza nessun miglioramento e com una prognosi a breve. La prognosi breve è un elemento importante in alcune legislazioni: in Canada chi ha una prognosi inferiore ai 18 mesi può accedere alla morte medicalmente assistita a prescindere dagli altri elementi. Se io medico ho creato questa condizione e il mio tentativo di portare un miglioramento è fallito a questo punto io stesso devo essere attore principale, devo rispondere positivamente alla richiesta del paziente. Perché ho provato a fare un percorso insieme, ma non ci sono riuscito. Non perché è colpa della medicina che non è infallibile, magari lo fosse. A questo punto io ho il dovere morale, se il paziente che è in condizione di sofferenza fisica o psichica, e ha una prognosi breve, di aiutarlo. Se lui mi chiede questa alternativa di morire oggi, adesso, immediatamente, io non posso sottrarmi secondo la mia etica.

Lei parla anche di sofferenza psichica. Quindi di fronte a un paziente con sofferenza psichica per cui non c’è trattamento o miglioramento e che impedisce a una persona di vivere la sua vita pienamente o gli impone di viverla come se fosse in uno stadio terminale, anche a questo paziente dovrebbe essere data la possibilità di richiedere la morte medicalmente assistita?
Sì, Lucio Magri (il fondatore de Il manifesto, ndr) ha ottenuto questo in Svizzera. Perché era un depresso grave: si parla di un male esistenziale che è un discorso molto delicato. Cerchiamo di capire che la grave depressione non è una malattia di serie B, non è la malattia da borghese stanco. Io le parlo di un paziente psichiatrico molto grave il cui unico pensiero è terminare la propria vita, le parlo di un paziente che potrebbe curarsi al massimo con farmaci che gli cambiano la personalità. A volte la terapia farmacologica può allievare il dolore ma crea quasi la condizione per cui il paziente non si trova più con se stesso, perde il suo io. La sofferenza psichiatrica ha uguale dignità della sofferenza fisica, ma mentre il paziente terminale con la terapia palliativa può trovare sollievo il paziente psichiatrico pensa dalla mattina alla sera solo ‘vorrei non esserci’: una condizione drammatica.

Ha citato Ippocrate. Il giuramento che gli è attribuito dice cose molto diverse da queste
Ippocrate, casomai fosse confrontabile con un medico attuale, vietava di dire la verità al malato quindi oggi andrebbe incontro a un procedimento di tipo penale. Raccomandava di nascondere al paziente l’imminenza della morte e vietava l’aborto. Parliamo di una millenaria tradizione che – per fare un esempio anche più leggero e divertente – prevedeva di non operare la calcolosi renale, ma al limite di farlo fare a un veterinario. La deontologia medica è un processo in evoluzione come tutti i processi umani. Io lo dico da almeno una decina di anni – dalla vicenda Welby in poi -. Io dico che oggi è un dovere morale del medico dare la morte al paziente che lo richieda in determinate condizioni.

Però esiste un dibattito tra i medici
Non c’è nessun dibattito e non c’è una organizzazione medica che abbia preso posizione a favore o contro. I medici brillano per la loro totale assenza. Tranne i medici cattolici, che hanno tutto il mio rispetto, ma che rappresentano l’1% dei medici italiani. Onore a loro per aver preso posizione.