La tecnologia ha perso un grande appuntamento con la storia, almeno in Italia. Ci riferiamo al crollo del ponte “Morandi” di Genova il 14 agosto di quest’anno. Innanzitutto è bene riprendere un vecchio concetto, rispolverarlo almeno, a causa della confusione che ancora molte persone fanno circa i termini di questo discorso. Il ponte, la sua progettazione e la sua realizzazione, compresa la scelta dei materiali, riguardano la Tecnica. Gli strumenti per garantire una ottimale realizzazione e soprattutto la sua sicurezza nel tempo sono la Tecnologia. Quindi è la tecnologia che dovrebbe concorrere all’attività di prevenzione degli effetti di incidenti accompagnati da sciagure di tale portata come quella di cui parliamo. Non pretendiamo che la tecnologia possa divenire uno strumento infallibile di predizione del futuro, e probabilmente non arriverà mai a tanto, tuttavia, se applicata correttamente, potrebbe realizzare la salvaguardia di tante vite umane. Ma ci domandiamo: esiste nel nostro paese qualcuno che pensa (in grande) con giudizio e ragione ai controlli in tempo reale di strutture in pericolo?
Registriamo la notizia (Il Giorno, Milano cronaca, 18 agosto 2018) che alla società Autostrade, sin dallo scorso anno, era stato consigliato di dotarsi di sensori collegati in rete di monitoraggio delle micro vibrazioni che evidenziavano già allora una situazione anomala a livello proprio del pilone crollato. Non approfondiamo oltre, questo è un tema che compete alla Magistratura e alle commissioni di indagine. Ci limitiamo ad alcune considerazioni di carattere filosofico, più propriamente etico ma anche bioetico, in considerazione del fatto che la tecnologia è ormai pervasiva di ogni aspetto dell’agire umano e delle sue scelte (morali).
Quindi con il crollo del ponte di Genova siamo in presenza di un fatto per molti aspetti inedito: la tecnologia non è onnipotente o quantomeno non procede sempre in avanti con realizzazioni sempre migliori (Hegel la chiamava la cattiva infinità). Ma c’è di più; è possibile che con questa asserzione cadiamo nell’incubo della logica; cioè arrivare a una conclusione esatta partendo da presupposti sbagliati.
Infatti, purtroppo molto più prosaicamente, in questo caso la tecnologia c’è ma non è stata per nulla utilizzata. Infatti tutti gli addetti ai lavori, compreso chi scrive, sanno perfettamente che da sempre tutte le potenziali situazioni di pericolo, dai presidi fisici militari all’uso delle tecnologie via via emergenti, vengono monitorate e gli strumenti per farlo esistono da decenni: sono in grado di determinare le dilatazioni, l’allargamento di una crepa, la frequenza e la consistenza delle flessioni di una trave nel tempo, la tensione presente in un strallo e, da anni, le infiltrazioni d’acqua e gli agenti inquinanti nell’aria, grazie a quella che chiamiamo ormai comunemente IoT (Internet Of Things) e di comunicare i dati in tempo reale a una centrale di rilevamento. Questi dati opportunamente raccolti possono, inoltre, alimentare piattaforme di Machine Learning che si occupano di “predictive maintenance” cioè sono in grado di sviluppare modelli previsionali, spesso anche contro-intuitivi per l’osservatore umano, che sono di un grandissimo aiuto per la prevenzione di eventi critici.
Qui entra in gioco l’aspetto più strettamente etico di questa vicenda; pare che la società Autostrade abbia preferito continuare la sua attività di prevenzione con un modello “classico”, immaginiamo legato alle ispezioni fisiche; ammesso che le indagini lo confermino. Tuttavia è lecito pensare che con le sole ispezioni fisiche, per quanto importanti, una serie molto numerosa e articolata di cause che hanno portato alla sciagura potrebbero non essere colte; in questo senso ci sono numerosi esempi di eventi sfuggiti al controllo o le cui cause si sono rivelate molto maggiori di quelle ipotizzate in prima istanza. La società Autostrade dichiara di essersi attenuta a un protocollo concordato, bene. Ma i controlli previsti dalla legge e dai disciplinari, lo sappiamo tutti, vengono eseguiti, ovviamente in maniera approfondita ma con intervalli di mesi, a volte di anni, senza tenere conto che gli eventi catastrofici possono rispondere a sollecitazioni intense (se si escludono quelle istantanee dovute a cataclismi naturali) che durano qualche giorno semplicemente per picchi di traffico tanto più rischiosi su una struttura in pericolo.
Se, come riporta la stampa, ci sono dichiarazioni di esperti e accademici che sostengono come il ponte Morandi fosse da anni un ponte a rischio, che necessitava di continue manutenzioni e magari sottoposto a carichi continui per cui non era stato progettato nell’uso normale, crediamo che sia legittimo chiedersi la ragione del perché queste tecnologie, che hanno un costo di qualche migliaio di Euro, non erano state implementate. Sottolineiamo il fatto che l’eventuale adozione di queste tecnologie di monitoraggio e “predictive maintenance” hanno un’incidenza sui costi globali di tali opere che rasenta l’irrisorio. Se a questo aggiungiamo l’entità degli utili realizzati dalla società Autostrade annualmente, c’è da rimanere interdetti.
Siamo di fronte a un problema di filosofia pratica quantomeno imbarazzante. Quali sono le ragioni per cui non era stato studiato o implementato un sistema di allarme che prevedesse almeno l’interruzione del traffico in presenza di una anomalia del comportamento del ponte o un peggioramento delle sue condizioni? Pensare a ragioni economiche, vista l’esiguità dei costi, sarebbe gravissimo. Possiamo pensare a una resistenza di tipo “culturale” ma perpetrata da un’azienda quotata in borsa che dovrebbe fare dell’uso intelligente delle tecnologie il suo fiore all’occhiello e lo strumento principale per raggranellare tanti soldi in Borsa, diventa difficile supporlo. Cosa resta? Temiamo che rimanga il lassismo, la tranquilla opulenza di una certa parte manageriale e politica dedita allo studio e sviluppo di nuovi bizantinismi, il lento scivolare in atti amministrativi ripetitivi e dunque ormai svuotati di significato, l’abitudine a gestire un organismo tramite le solite attività cadenzate con investimenti di molto inferiori rispetto agli standard (europei?) e la gestione del consenso politico per legittimare periodici aumenti tariffari e poco più. E poi organismi di controllo in buona parte addomesticati, perché anch’essi caduti nell’oblio e nel refrain delle scarse risorse, della poca valorizzazione del personale, delle competenze tanto cavillosamente codificate e delineate da diventare indecifrabili.
Una lenta colata di bitume sta ultimando di coprire le coscienze di tutti. Oggi deve levarsi forte la voce della Filosofia. Perché è in momenti come questo che deve farsi sentire. Portare le domande necessarie e veramente importanti alla luce del sole, scoprire i falsi miti, i luoghi comuni e il conformismo culturale, sia quello che vorrebbe l’Italia un paese pervaso da tecnologie e piattaforme IoT, progetti di A.I., start up a pioggia e iniziative 4.0-pubbliche e private-a forza dieci (e invece non è vero), sia quello che vorrebbe le aziende che pensano primariamente al bene dei dipendenti e al comfort del cliente.
Tanto per cominciare. Poi potrà tornare a sonnecchiare fino alla prossima volta e a farsi canzonare dalla Scienza.