18 APR – Gentile direttore,
nell’intervista al quotidiano La Verità del 17 aprile 2019 (“I dottori salvano vite. All’eutanasia preferiamo Ippocrate”), il Presidente Filippo Anelli ribadisce la generale e ferma contrarietà della Fnomceo all’ipotesi di un’eventuale legge tesa a regolare il suicidio assistito o l’eutanasia, ma esclude anche il “muro contro muro”, e dichiara grande apertura alla discussione: “non abbiamo alcuna pregiudiziale a discutere. Massima disponibilità al dialogo. Se ci convinceranno della bontà delle tesi altrui ne prenderemo atto”.
Colgo al volo questa disponibilità per dialogare con lui sulla tesi principale affermata, cioè quella in cui esplicita perché è contrario all’assistenza al morire. Afferma Anelli: “Noi [medici] non facciamo politica. Ma abbiamo l’obbligo di chiedere che la dignità dell’uomo, anche nel momento supremo della sofferenza, continui ad avere un significato. La soluzione non è mai la morte, piuttosto bisogna mettere in atto quegli strumenti che leniscano la sofferenza del malato”.
È condivisibile l’idea che il medico non “faccia politica”, nel senso che la sua preoccupazione prima è la salute delle persone, la quale va tutelata a prescindere dai diversi orientamenti politici. È altrettanto perfettamente condivisibile l’altra idea che la sofferenza vada sempre combattuta, e che sia contro la dignità umana lasciare che il paziente soffra.
Non è del tutto chiaro che cosa Anelli intenda quando afferma che il medico ha l’obbligo di chiedere che la dignità continui a avere sempre un significato, anche nel momento supremo della sofferenza, ma forse vuole sottolineare che è dovere del medico esortare o auspicare che sempre nella vita ci sia un significato a garanzia della dignità. Così la interpreta anche il redazionale, che riassume: “Vogliamo che la dignità dell’uomo, anche nel dolore, abbia significato”.
Nulla da eccepire sull’esortazione o sugli auspici. Ma che fare quando la situazione è tragica e il paziente soffre irrimediabilmente? Fino a non molti decenni fa si moriva in fretta, ma oggi i progressi della nostra medicina ci consentono di prolungare a lungo la vita e con essa anche le sofferenze terminali. Questo profondo e radicale cambiamento delle circostanze del morire fa emergere la distinzione tra le sofferenze nella vita, che sono quelle che sopportiamo tutti al fine di avere l’opportunità di tornare a una vita normale, e che quindi hanno un loro denso significato; e le sofferenze terminali o alla fine della vita, che sono quelle che ci sono anche se non si prevede alcun ritorno a una vita normale.
Può darsi che chi crede in una vita ultraterrena sia capace di dare un significato anche alle sofferenze terminali, ma, per chi non crede in un al di là, queste sofferenze sono una pura e inutile tortura: qualcosa di contrario alla dignità umana.
Nel nostro mondo secolarizzato, molti sono coloro che non riescono a dare un significato alle sofferenze terminali, e anzi le considerano contrarie alla dignità: che fare con essi? Anelli afferma che “ci sono alternative al suicidio assistito”, forse pensando al fatto che sempre disponiamo di mezzi capaci di lenire il dolore, e cioè le cure palliative e la sedazione profonda.
Ma sappiamo che non sempre la palliazione ha successo: Davide Trentini ha avuto le migliori cure palliative, ma a un certo punto ha chiesto con insistenza di andare in Svizzera per essere aiutato a morire. Anche Dj Fabo ha rifiutato la sedazione profonda, e ha voluto essere accompagnato in Svizzera. Questi sono solo due casi singoli, ma non isolati: sono anzi l’esempio delle centinaia di italiani già in lista d’attesa per la Svizzera.
Visto che il presidente Anelli è aperto al dialogo, ritiene che il medico non “faccia politica” e che debba combattere la sofferenza, gli chiedo: che risposta dà alle richieste esplicite di persone come Dj Fabo e Davide Trentini che, in preda a sofferenze terminali, chiedono di essere aiutati a morire?
In attesa di risposta, rilevo che non basta continuare a ripetere che ci sono mezzi per evitare tali richieste (cure palliative e sedazione profonda), perché ciò non corrisponde al vero ed è anzi una “negazione di realtà”.
Non basta neanche continuare a ripetere che anche nel dolore, la dignità dell’uomo ha sempre un significato, perché non è vero che ciascuno di noi è in grado di dare o di trovare tale significato.
Infine, non basta neppure ripetere che il Giuramento d’Ippocrate prescrive ai medici di essere “i custodi della vita”, perché ciò non tiene conto del fatto che oggi la nostra medicina moderna (diversamente da quella antica giunta fino a pochi decenni fa) consente di far vivere anche quando la vita è diventata per l’interessato un insopportabile supplizio e quindi la sua custodia una forma di tortura (a prescindere dall’essere o no attaccato alle macchine).
Per questo, presidente Anelli, nelle nuove condizioni storiche bisogna avere una legge che consenta a chi si trova nella malcapitata situazione di non trovare un significato alle sofferenze terminali possa chiedere e ottenere un aiuto a morire. Sia chiaro: chiede l’aiuto chi lo vuole e ha esigenza di chiederlo, mentre per gli altri la situazione non cambia. E i medici si troveranno a dare l’aiuto richiesto a chi lo chiede, continuando a curare gli altri come prima.
Un’ultima nota circa il contributo dei medici al problema. Anelli ha ragione quando dice che i medici non devono rimanere in silenzio, e ritiene che l’intervento vada ispirato a Ippocrate. Eppure, il problema vero è sapere se ci siano davvero persone che, come Dj Fabo o Davide Trentini, chiedono assistenza al morire, o se invece questi siano casi inventati o costruiti da chi “fa politica”.
Se, infatti, sono casi reali (e si potrà poi discutere su quanti siano), perché allora i medici non dovrebbero farsi portavoce delle esigenze e richieste di questi pazienti, e dichiararsi pronti a dare a loro una risposta concreta e efficace anche con l’aiuto al morire? Se compito precipuo del medico è essere al servizio del paziente e combattere sempre la sofferenza che è contraria alla dignità, perché non offrire anche questo servizio?
Rifiutare di farlo in nome di Ippocrate (che per altro non ha mai scritto il celebre Giuramento che porta il suo nome!) è restare ancorati o avvitati a precetti antichi di un mondo che fu e che ormai è dissolto.
Ma può darsi che Anelli abbia altre ragioni più stringenti che non conosco: vista la sua disponibilità al dialogo attendo risposta, così da poter continuare il vaglio critico delle ragioni in campo.
Maurizio Mori
Ordinario di Filosofia Morale e Bioetica, Università degli Studi di Torino
Presidente Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica
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