Derivato dal verbo latino transire, “passare”, con il termine transizione si denota, generalmente, il passaggio che intercorre tra un modo di essere o di vivere e un altro e che altera le condizioni vigenti con situazioni dissimili e impreviste per il soggetto del cambiamento. In senso lato, dunque, si intende indicare, con il sostantivo suddetto, un periodo provvisorio, precario e intermedio, che non possiede più gli aspetti della fase iniziale ma non manifesta ancora quelli del passo conclusivo, dando luogo, così, a uno stato di incertezza e confusione.
Il medesimo nel quale, in ambito medico-assistenziale, versano anche i giovani pazienti che si ritrovano costretti a “passare” dalle cure pediatriche a quelle per l’adulto, e motivo di discussione dell’ultimo appuntamento del Bioethical Club, recentemente riunitosi per indagare la “transizione” delicata e, spesso, necessaria che interessa i pazienti affetti da patologie croniche o complesse che si apprestano ad abbandonare lo statuto di bambini in favore di un mondo – quello degli adulti – dai contorni labili e indefiniti.
Dal momento che i progressi della medicina nella diagnosi e nella terapia di determinate malattie hanno permesso a molti degenti di proseguire la propria vita e di affrancarsi dall’area pediatrica, una delle difficoltà principali che concernono tale passaggio – come sottolineato dalle fautrici dell’incontro, presieduto dal professore Maurizio Mori, Elisabetta Bignamini, Specialista in Pediatria e Malattie dell’apparato respiratorio, ed Elena Nave, bioeticista – è, infatti, quella relativa all’insorgere di bisogni, volontà e cambiamenti fisici e psicologici inediti – e perlopiù ignorati – che accompagnano la crescita del paziente, spesso ridotto alla mera considerazione dell’età anagrafica che ne determina la maturità – ossia i 18 anni.
Una limitazione di visione che emerge anche dall’assenza di percorsi che consentano, ai giovani adulti, di apprendere le modalità con cui acquisire consapevolezza di sé e della propria infermità, e dalla quale deriva, perciò, l’impossibilità, per gli stessi, di succedere ai genitori e divenire interlocutori idonei dei medici con cui si troveranno a dialogare una volta abbandonata l’equipe multidisciplinare.
Ad acuire le problematiche inerenti al passaggio dei cosiddetti pazienti “transitabili”, appunto, vi è quello che potrebbe essere considerato, forse, l’ostacolo precipuo, sede di uno dei dubbi etici intrisi nell’oggetto di disamina, ossia: l’insegnamento delle “tecniche di sopravvivenza” e degli atti pratici funzionali alla cura fattiva della patologia in luogo di una autonomia morale promotrice di capacità decisionali e autodeterminazione, elementi essenziali al “nuovo adulto” che si predispone a fronteggiare abitualmente medici e professionisti del settore cui dovrà essere capace di consegnare, con coscienza, le proprie volontà.
Un’incuria che delinea, in tal modo, i contorni della vacuità di un’educazione etica che, nella maggior parte dei casi, risulta, poi, essere aggravata anche dalla preparazione culturale insufficiente e dalla scarsa conoscenza – da parte dei professionisti – di patologie croniche con insorgenza precoce, che, in quanti tali, erano solite essere trattate – fino a pochi anni fa – esclusivamente dal pediatra e dai gruppi di lavoro interdisciplinari. Modelli con i quali i dottori di medicina interna fanno, inoltre, fatica a interloquire, contribuendo, così, a rendere fallimentare il passaggio di cure.
Ma in uno scenario similare, dunque, quali potrebbero essere le modalità attraverso cui rendere favorevole e affidabile questa delicata transizione di assistenza? Tra le proposte avanzate è emersa, in particolar modo, la necessità di garantire un cambiamento graduale e coordinato, corroborato da un dialogo costante ed efficace tra i soggetti coinvolti, ossia l’adolescente, i genitori, il personale medico e infermieristico – altamente specializzato – appartenente al mondo della pediatria e quello concernente la medicina per l’adulto, che si avvalga di una serie di protocolli e linee guida in grado di garantire un’assistenza continuativa e di qualità.
Di qui, poi, anche l’esigenza di delineare una legge apposita per tutti i casi di “non-transitabilità”, costituiti da pazienti che, complessivamente, non hanno sviluppato il soma, abbisognano ancora di cure pediatriche – nonostante la soglia dei 18 anni – e risultano privi di quelle capacità emotive e cognitive che consentano loro di divenire “partner decisionali” dei medici, e per i quali si prefigura, quindi, l’ineluttabilità di una maturità meramente fisica e non psichiatrica, fautrice di una distinzione nitida tra vita biologica e vita biografica. In tali contesti sarebbe, perciò, opportuno eliminare il richiamo anagrafico e definire il reparto di riferimento con la denominazione di “malattie rare”, al fine di elidere distinzioni di età e focalizzare l’attenzione esclusivamente sull’urgenza, e le derivate conseguenze, che determinate patologie comportano, concordando, anche ai pazienti impossibilitati a “transitare” verso le cure per l’adulto, una riconoscibilità e una dignità di caratura morale.
Giungendo, così, progressivamente, verso la delineazione di un sistema di dialogo, collaborazione e sostegno che renda meno difficoltosi i passi incerti e titubanti di un equilibrio precario e senza rete.