Consenso informato, Dat e codice di deontologia medica: le ragioni della prevalenza legislativa – di Luca Benci

Pubblicato su Quotidiano sanità

 

Premessa
I codici deontologici di tutte le professioni sanitarie sono chiamati a dare il proprio contributo  nel nuovo contesto che si è aperto dopo l’approvazione della legge Lorenzin sugli ordini professionali.
Si precisano per la prima volta in un testo normativo,  quanto meno parzialmente, i contenuti e i valori che devono essere contenuti all’interno di un codice deontologico.
Nella novella legislativa si indicano le finalità degli ordini che devono essere informate (anche) ai “principi etici dell’esercizio professionale indicati nei codici deontologici”.
I codici verranno emanati dalle Federazioni nazionali dietro approvazione con maggioranza qualificata dei tre quarti del Consiglio nazionale (l’insieme dei presidenti provinciali e interprovinciali).
La maggioranza qualificata impone un grande sforzo di condivisione da parte del sistema ordinistico. Dunque nei codici deontologici devono essere contenuti i principi etici dell’esercizio professionale e non anche, come aveva suggerito il testo approvato nella precedente lettura dal Senato, di definire le “aree condivise tra le diverse professioni, con particolare riferimento alle attività svolte da équipe multiprofessionali in cui le relative responsabilità siano chiaramente identificate ed eticamente fondate”.
In effetti la norma in questione avrebbe mutato geneticamente il contenuto del codice deontologico e la stessa nozione di deontologia attribuendo agli ordini attività, decisamente non proprie, di atti di che sono e restano di autoregolamentazione di categoria e non atti normativi di valenza generale.

Dunque, il contenuto dei codici deontologici, è quello di cristallizzare i principi etici dell’esercizio professionale.
E’ interessante vedere come si siano evoluti alcuni dei più importanti principi e istituti deontologici all’interno della più storica e tradizionale delle professioni. Ci aiuta in questo un volume uscito recentemente e curato da Marcello Valdini “La deontologia medica nell’evoluzione codicistica. Una lettura sinottica delle sette edizioni 1958-2014 e relativi giuramenti” (Anankelab edizioni 2017).
Il progetto editoriale, non a caso promosso dall’Omceo di Piacenza e patrocinato dalla Fnomceo, è preceduto da una preziosa presentazione di Maurizio Mori, ordinario di Bioetica all’Università degli studi di Torino nonché presidente della Consulta di Bioetica che, dopo avere spiegato i diversi livelli di etica esistenti precisa che “il codice deontologico è importante perché precisa e fissa in noma alcune conquista morali invalse” e punta l’attenzione sulla condivisione del mondo professionale ai dettami del codice che, in genere, non accoglie le istanze etiche più alte perché “possono apparire troppo avanti tanto da non essere capite e condivise”.
Mori mostra la sua contrarietà a questo orientamento auspicando un codice che non si appiattisca ai livelli medio bassi o medio diffusi nei comportamenti professionali, ma dovrebbe puntare più in alto per posizionarsi al di sopra del livello medio. Questo accresce il prestigio esterno e interno (autostima) del corpo professionale.
L’autostima che però può anche provenire da un’importante tradizione storica. Osserva Mori che l’antico impianto etico-ippocratico esercita un potente fascino nel cuore di molti medici, in quanto, tra l’altro, sentirsi parte di un’ininterrotta tradizione millenaria è psicologicamente rassicurante.
Le parole di Mori sono sulla stessa sintonia con quanto espresso, su queste pagine, da un’altra accademica come Donatella Lippi che sottolinea come la storia fornisca “i quarti di nobiltà alla Medicina, garantendole il lustro del passato”. Lippi però ammonisce sul rischio di questo “atteggiamento antiquario nel compiacimento del proprio albero genealogico” e soprattutto ritiene scorretto “estrapolare la figura di un medico (o di uno scienziato) dalla sua epoca, per trasformarlo in un improbabile (e impossibile) “pensatore di più tempi”.
Questa operazione distrugge la sua specificità storica, che “mantiene un senso preciso solo entro il contesto culturale che l’ha generata”. In altre parole non esiste un Ippocrate per tutte le stagioni e quelle concezioni sono improponibili sul piano etico come precisa Mori o, come aveva anni fa sottolineato sempre Lippi, “giurare sul giuramento di Ippocrate vuol dire, in primo luogo, accettare un atteggiamento paternalista nei confronti del malato, che non corrisponde più alla moderna bioetica della relazione di cura”.
Ci interessa affrontare in questa sede i rapporti tra norme deontologiche e leggi, il loro eventuale contrasto e quando la norma deontologica ha preceduto quella giuridica e quando invece l’ha dovuta inseguire.
Approfittando dei recenti cambiamenti intercorsi con la recente approvazione della legge 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” proviamo a seguire l’evoluzione di due istituti tra di loro contigui: il consenso informato e la privacy.
Vedremo come la norma deontologica si è sempre adeguata alla norma giuridica sopravvenuta.

L’evoluzione del consenso informato e della privacy nelle varie versioni del codice di deontologia medica
L’opera di Valdini ci permette si ricostruire agevolmente l’evoluzione del consenso informato e della tutela della riservatezza (relativa al consenso informato) negli ultimi decenni nella tradizione codicistica. L’informazione e il consenso sono uno degli aspetti in cui era maggiormente presente l’aspetto paternalistico e che è venuto meno prima per decisione deontologica (influenzata giurisprudenzialmente) e, solo successivamente, per decisione giuridica. Strettamente collegato al consenso informato sono gli aspetti legati alla riservatezza dei dati in cui però il codice di deontologia medica si è dovuto adeguare alle norme giuridiche intervenute.
Per quanto riguarda il consenso informato l’andamento del codice Fnomceo è stato altalenante.
Nel 1958 si leggeva che il medico non doveva “intraprendere alcun atto operativo senza il consenso dell’ammalato” (art. 34). In caso di rifiuto doveva farsi rilasciare un dichiarazione scritta. Norma chiarissima senza necessità di altra interpretazione che non sia quella letterale.
Una lettura superficiale potrebbe indurre a ritenere già risolto il problema del consenso informato in epoca non sospetta. Vedremo che non è così.
Nel  1978 il codice, infatti, opera un passo indietro e il consenso del paziente viene circoscritto “solo a quegli atti medici che comportino un rischio per il paziente”. Dal consenso per tutti gli atti a solo quelli rischiosi. Non solo: “la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico un elemento al quale egli ispirerà il suo comportamento”. Un elemento ispiratore dunque, non vincolante.
Non solo: i livelli comunicativi potevano essere indirizzati, in pieno spirito paternalistico, anche solo alla famiglia (“Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia”, art. 30).
Nel 1989 (art. 39) accanto all’informazione compare il verbo “dovere”. Il medico doveva quindi informare, ma residuavano indicazioni paternalistiche. Il medico, infatti, si leggeva nella norma codicistica, poteva “valutare, segnatamente in rapporto con la reattività del paziente, l’opportunità di non rivelare al malato o di attenuare una prognosi grave e infausta, nel caso in cui questa dovrà essere comunicata ai congiunti”. Informazione negata da un lato e violazione della privacy dall’altro diremmo con l’ottica vigente.
Nel 1995 la svolta è totale e il paternalismo viene posto in soffitta. Obbligo di informare il paziente e adeguamento alle norme europee sulla riservatezza: l’informazione ai parenti consentita solo se il paziente lo consentiva.
Doppio consenso quindi: al trattamento sanitario e al trattamento dei dati personali. Il dominus diventa, dal 1995, il paziente.
Nel 1998 l’impostazione si rafforza e viene enfatizzata dalla rubricazione dell’articolo 30: “Informazioni al cittadino”. Cittadino, non paziente, quindi titolare di diritti. Il codice concentrava l’attenzione sull’ampiezza dell’informazione che doveva vertere su “diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate”.
Da questo momento le norme sulla privacy diventano solo ripetitive della norma giuridica entrata in vigore nel maggio del 1997, mentre le norme codicistiche sul consenso sono le uniche esistenti, influenzate dalla giurisprudenza, in assenza di una legge ordinaria sul consenso informato.
Giurisprudenza e codice di deontologia medica hanno per anni avuto il positivo ruolo di supplenza normativa.
Nel 2014 accanto all’informazione scompare il verbo “deve” per fare posto al verbo “garantire”.
A fine gennaio 2018 entrerà in vigore la legge 219/2017 che costringerà inevitabilmente a una revisione del codice di deontologia medica e di tutte le altre professioni proprio perché all’arrivo della norma giuridica che regolamenta la stessa materia, la norma deontologica si ritrae o, al più diventa integrativa.
L’onorevole Donata Lenzi ha ricordato su queste colonne il tempo di approvazione della legge 194/1978, di cui quest’anno ricorre il quarantennale dall’approvazione. L’aborto veniva vietato anche deontologicamente prima di quella data. Dopo l’approvazione della legge il codice non ha potuto che prenderne atto specificando che l’interruzione volontaria della gravidanza “è regolamentata con legge dello Stato”.
Non ha rinunciato però a dare indicazioni di pura deontologia e, con una formulazione particolarmente felice, specificò che il medico non doveva, alla donna che richiedeva l’atto interruttivo, esprimere giudizi su circostanze che esulavano “dalla necessità primaria della salute psico-fisica della donna”.  Esempio di disposizione deontologica pura.
Ecco allora che l’operazione di rivisitazione delle norme sul consenso e sulle “disposizioni anticipate di trattamento” diventa urgente per adeguare la normativa codicistica alla nuova legge mantenendo le parti strettamente deontologiche sull’informazione e sul consenso, rinviando alla legge in vigore le norme più strettamente giuridiche in merito al consenso, al dissenso, ai minori ecc.
Per quanto riguarda il consenso e il dissenso da esprimersi anticipatamente sulle parti finali dell’esistenza, l’articolo 38 del codice di deontologia medica 2014 si pone in contrasto con la legge 219 e deve essere completamente riformulato: si parla infatti di “dichiarazioni” e non di “disposizioni”, non se ne afferma il carattere di vincolatività, non si parla di pianificazioni condivisa e tanto altro.
Ecco un altro esempio di norma deontologica che deve adeguarsi al mutato contesto giuridico in quanto attualmente da considerarsi contra legem.
La norma deontologica ha natura di  “precetto extra-giuridico” ed è destinata a ritrarsi nel momento in cui lo spazio che occupa viene raggiunto dalla regolamentazione giuridica.
In altre parole non possono coesistere contrasti in materia di informazione, consenso, disposizioni anticipate di trattamento e privacy tra norma deontologica e giuridica.
Quest’ultima prevale sempre.