Altro che dire che “morire non è un diritto” o che la Corte avrebbe elevato “argini al suicidio assistito”: la sentenza 242/19 ha aperto un’autostrada al diritto di morire, nel rispetto dei vincoli costitutivi del caso. Il passo compiuto dalla sentenza è di portata storica e pone l’Italia all’avanguardia nel mondo: l’auspicio è che ora i medici italiani colgano la sollecitazione e rispondano con la stessa apertura di pensiero.
1. Importanza storica della sentenza 242/19, che pone l’Italia all’avanguardia nel mondo: è la prima nazione di grandi dimensioni che ammette il suicidio medicalmente assistito.
Venerdì 22 novembre è giorno per cose importanti: nel 1963 l’assassinio del presidente Kennedy ha cambiato il corso della storia politica mondiale; nel 2019 la sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio medicalmente assistito ha cambiato la storia socio-culturale italiana.
Sinora il suicidio assistito era consentito in stati di piccole-medie dimensioni: l’Italia è la prima nazione di grandi dimensioni (oltre 50 milioni di abitanti) che l’ammette: prima al mondo! Prima della Francia, che aveva l’eutanasia come punto qualificante del programma elettorale di Holland, diventato presidente. Chi l’avrebbe mai detto: l’Italia all’avanguardia prima della Francia, Gran Bretagna e Germania!
2. La sentenza è stata accolta senza polemiche, sottotono, e fraintesa.
Di fronte a questa notizia c’era da attendersi il finimondo, alzate di scudi e barricate, o champagne e balli di gioia. Invece niente. La Fnomceo aveva annunciato battaglie, ma ha subito dichiarato di essere pronta a cambiare il Codice di Deontologia Medica.
La Conferenza Episcopale Italiana è stata in silenzio. Papa Francesco ha parlato solo una settimana dopo, in un incontro programmato da tempo sul giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia e oppositore dell’eutanasia. Ha criticato le “sentenze che in tema di diritto alla vita vengono talora pronunciate nelle aule di giustizia, in Italia e in tanti ordinamenti democratici. Pronunce per le quali l’interesse principale di una persona disabile o anziana sarebbe quello di morire e non di essere curato; o che – secondo una giurisprudenza che si autodefinisce “creativa” – inventano un “diritto di morire” privo di qualsiasi fondamento giuridico, e in questo modo affievoliscono gli sforzi per lenire il dolore e non abbandonare a sé stessa la persona che si avvia a concludere la propria esistenza” (29 novembre). Poche generiche parole, il minimo dovuto.
La stampa italiana ne ha parlato solo per un giorno o due. Il titolo più esultante: “La svolta sul fine vita”, col sottotitolo che subito smorza: “Ecco quando l’aiuto al suicidio non è reato” (Repubblica 23/11). Il massimo dell’opposizione: “I giudici della Corte aprono all’eutanasia. Spalancate le porte al diritto di uccidersi” (La Verità 23/11). Per il resto, L’Osservatore Romano (24/11) si è limitato a riferire la notizia senza commenti, Avvenire ha minimizzato o frainteso: “Argini al suicidio assistito: prima cure palliative, non è diritto” (22/11); “Eutanasia, i paletti della Consulta”; “Morire non è un diritto” (23/11). Le testate laiche hanno sottolineato la discrezionalità lasciata ai medici: “Aiuto al suicidio non punibile. Ma niente obbligo per i medici” (Il giornale, 23/11); “I confini del suicidio assistito. Nessun obbligo per i medici” (Corriere della sera, 23/11); “Suicidio assistito non sempre reato. Non c’è obbligo di aiuto per i medici” (Il sole-24ore, 23/11).
Oltre a aver ricevuto scarso rilievo, la sentenza è stata fraintesa. La Corte non può andare oltre il preciso quesito postole, che nello specifico riguardava un caso molto circoscritto. Nel rispetto dei vincoli prefissati, ha spalancato orizzonti nuovi. Ma invece che sull’apertura, l’attenzione è stata messa sui vincoli costitutivi presentati come paletti o argini fissati dalla Corte: in questo la sentenza è stata fraintesa.
Tutto ciò ha attenuato le controversie, ma è davvero strano che, nel giorno in cui la decisione è diventata esecutiva, nessuno sia insorto contro di essa. Non è chiaro come mai ciò sia avvenuto, e al riguardo si possono fare alcune ipotesi.
3. Ipotesi circa il silenzio calato sulla sentenza.
Può darsi che il silenzio calato sulla sentenza in parte sia dipeso dal rispetto prestato all’indicazione generale di papa Francesco di non insistere troppo sui temi di bioetica per evitare il muro contro muro dei decenni scorsi. Può darsi che, invece, sia dipeso dalla consapevolezza che la decisione della Corte gode ampi consensi anche tra i cattolici.
Dopo aver ribadito che “vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente” e che la richiesta di morire è sempre “un atto di egoismo”, lo stesso cardinal Bassetti ha riconosciuto che per molti cattolici quel discorso è diventato “incomprensibile o addirittura violento” (11/09/2019). Altrettanto incomprensibile è diventata la nozione di sacralità della vita, che nel discorso di Bassetti neanche è più menzionata: non dice più che il suicidio è vietato in sé perché la vita è sacra, ma dice che ci vuole il divieto di suicidio per evitare di finire sul piano inclinato che ci farebbe inesorabilmente scivolare nel baratro della “cultura dello scarto”.
Può darsi, anche, che il silenzio sia dipeso dalla volontà di non inasprire gli animi nella speranza di riuscire a ricucire lo strappo. Alcuni credono di poterlo fare perché non è ancora stata ben colta la portata del cambiamento. Di fronte a un grosso shock, non sempre ci si capacita subito dell’accaduto e si pensa che poco o nulla sia cambiato e che si riesca a continuare come prima.
Sembra muoversi in questa linea il dr. Giuseppe Battimelli, vice-presidente dell’Amci, quando scrive su QS che la sentenza “indubbiamente, seppure per casi particolari e rari, cambia il paradigma dell’arte medica ma nello specifico non cambia la sua deontologia e neppure il codice deontologico”. Non si capisce come Battimelli possa riconoscere che è cambiato il paradigma medico, e dire anche che, però, rimane intatta la sua deontologia: le due proposizioni non stanno insieme, se non per via di una sorta di negazione di realtà caratteristica delle situazioni di sgomento estremo.
Può darsi, infine, che siano state evitate le polemiche per poter aprire uno spazio per il dialogo. Questa sembra essere la strada imboccata dal Movimento per la Vita (MpV) che, in una Nota diffusa il 25 novembre rileva che la sentenza si muove in “un contesto che non approviamo in alcun modo”, ma riconosce che con essa “comunque dobbiamo fare i conti” e si impegna a individuare “gli aspetti da valorizzare” alla ricerca (costruttiva) di punti d’intesa. Con lo stesso spirito esamino gli argomenti proposti per vedere se ci sia davvero lo spazio di dialogo auspicato dal MpV.
4. Analisi della prima tesi affermata dal MpV: perché non è vero che “morire non è mai un diritto”.
Per il MpV il primo aspetto da valorizzare è che la sentenza 242/19 avrebbe stabilito che “morire non è mai un diritto: la Corte Costituzionale ha sì depenalizzato l’aiuto al suicidio in alcune circostanze, ma nessun medico ha il dovere di aiutare qualcuno a suicidarsi”. Anzi, “la libertà lasciata al medico dalla sentenza 242/19” dovrebbe “avere ripercussioni sulla discutibilissima legge 219/2017” che invece prevede per il medico l’obbligo (non la libertà) di sospendere gli interventi non voluti dal paziente.
Partendo dalla tesi che “nessun medico ha il dovere di aiutare qualcuno a suicidarsi”, il MpV ha concluso che “morire non è mai un diritto”. L’argomento, tuttavia, è invalido, perché non considera la distinzione tra diritti perfetti e imperfetti. I primi impongono a terzi i corrispondenti stretti obblighi a fare, mentre i secondi semplicemente affermano che la pretesa è valida senza imporre a terzi alcun corrispondente obbligo a fare, ma solo il divieto a impedire. Il diritto alla libera espressione delle proprie idee non impone agli altri l’obbligo di aiutarmi a diffondere le mie idee, ma solo il divieto a impedirmi di farlo. Dalla libertà lasciata al medico di prestare o no l’aiuto a morire non deriva affatto che “morire non è mai un diritto”.
Resta comunque da spiegare come mai la L. 219/17 ingiunga al medico l’obbligo di rispettare la richiesta del paziente di rifiutare i trattamenti (senza possibilità di obiezione di coscienza), mentre la sentenza 242/19 lasci al medico la totale libertà di accettare o no la richiesta del paziente di essere aiutato o no a morire. Per il MpV quest’asimmetria rivelerebbe un’incongruenza da sanare nel senso che la libertà lasciata dalla sentenza 242/19 dovrebbe portare a rivedere la “discutibilissima legge 219/17” nel senso di ammettere l’obiezione di coscienza del medico.
5. Analisi della seconda tesi del MpV: perché è sbagliato pensare che alla luce della 242/19 si debba rivedere la L. 219/17 sull’obiezione di coscienza.
In via preliminare, va rilevato che nella sentenza 242/19 la L. 219/17 viene citata con favore per ben quindici volte così da essere come “costituzionalizzata”, in quanto assunta come criterio di riferimento per il fine vita. Per esempio, la Corte osserva che “la decisione di accogliere la morte” già oggi può essere presa “in forza della legge 22 dicembre 2017, n. 219 […] la cui disciplina recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria […] nonché le indicazioni di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico” (Sentenza 242/19, 2.3)
Già questa grande considerazione della L. 219/17 costituisce una secca smentita di chi la riteneva anticostituzionale e di chi ancora continua a ripetere che sia “discutibilissima”. Assumendo la L. 219/17 come base, la Corte va oltre essa e allarga il campo quando afferma che, “se […] il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari […] non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale” (Sentenza 242/19, 2.3).
Detto altrimenti: visto che per la 219/17 è dovuto il rispetto del rifiuto dei trattamenti che ha come esito la morte (senza possibilità di obiezione di coscienza), non si vede perché non sia dovuto anche il permesso di rispettare una richiesta che ha lo stesso esito grazie a un aiuto a morire, cioè perché non sia lasciata al medico la libertà di accogliere o no la richiesta di essere aiutati a morire. Per il MpV l’asimmetria rilevata tra i due casi rivelerebbe un’inaccettabile incongruenza.
Per spiegare l’asimmetria, cominciamo a chiarire il perché dell’obbligo imposto dalla 219/17 al medico. Se si considera il piano della vita meramente biologica (quello dei processi bio-chimici e metabolici) i trattamenti risultano invasivi e sono un “di più”, una eccedenza rispetto al decorso del processo naturale: il medico li può proporre, ma restano qualcosa di eccedente per cui il paziente non perde la libertà di accettarli o no, e la scelta al riguardo resta a sua discrezione. Per questo il medico ha il dovere di rispettare la scelta del paziente, anche quando il rifiuto ha come esito la morte.
Passiamo ora alla libertà che la sentenza 242/19 ascrive al medico circa il rispetto o no della richiesta del paziente di essere aiutato a morire. Se consideriamo sempre il piano della vita meramente biologica, vediamo che in questo caso è l’aiuto a morire richiesto dal paziente al medico a essere il “di più”, l’eccedenza rispetto al decorso del processo naturale biologico. Le parti sono capovolte, ma il principio etico è lo stesso: in presenza di un’eccedenza vale la libertà circa essa.
Quando eccedente è il trattamento proposto dal medico, la libertà è in capo al paziente che ha la facoltà di riceverlo o no a propria discrezione; quando eccedente è l’aiuto a morire richiesto dal paziente, la libertà è in capo al medico, che ha la facoltà di prestarlo o no. Ecco spiegata la compatibilità dell’asimmetria rilevata: la libertà ascritta al medico dalla sentenza non comporta alcuna revisione della L. 219/17.
6. Perché la sentenza 242/19 ammette il suicidio medicalmente assistito: la prospettiva etico- filosofica sottesa alla sentenza.
Ci rimane da chiarire come mai la Corte abbia potuto andare oltre la 219/17 e ampliare il campo sancendo così il diritto (imperfetto) di essere aiutati a morire. Per far questo bisogna allargare lo sguardo e andare a cogliere la filosofia implicita sottesa alla sentenza stessa. Ernst Mach scriveva che “ogni singolo uomo trova in sé, al risveglio della sua coscienza, una completa visione del mondo alla cui formazione egli non ha intenzionalmente contribuito in alcuna misura e che egli riceve in dono dalla natura e dalla cultura. Ciascuno deve cominciare da qui”. Qualcosa del genere vale anche per le sentenze: nel caso specifico partendo da alcuni passi cerchiamo di esplicitarne i presupposti etico-filosofici che, tacitamente, la informano.
Abbiamo visto che la rispettiva libertà del paziente e del medico sono giustificate dall’eccedenza dell’azione rispetto al decorso naturale della vita meramente biologica (i trattamenti lo ritardano, l’aiuto a morire lo accelera), e che la scelta è presa sulla scorta degli effetti che tali atti hanno sulla loro vita biografica, cioè il complesso di sensazioni, desideri, ricordi, piani di vita, ecc. propri di un individuo.
Una biografia si struttura su vari livelli, alcuni più elementari (il dolore, il movimento, ecc.) e altri più elevati (l’arte, la moralità ecc.). Di solito la scelta del paziente circa i trattamenti fa riferimento agli aspetti più elementari della propria biografia, mentre quella del medico a aspetti più elevati, ma di biografia sempre si tratta.
È decisivo acquisire la categoria di vita biografica, perché l’etica stessa ha a che fare con la fioritura, il miglioramento, l’integrità e la tutela delle diverse vite biografiche, la cui natura va qui almeno tratteggiata nelle linee essenziali.
La prima osservazione da farsi è che di solito vivere è bello e che la vita è un bene, in quanto presenta livelli positivi e apprezzati da chi la vive. Non mancano i pessimisti, per i quali vivere è solo soffrire e “meglio è non nascere che esser nati”: il loro pungolo sollecita riflessioni interessanti, ma per la stragrande maggioranza la vita non è poi così effimera. Tutti sappiamo che nell’esistenza ci sono degli alti, dei bassi e dei grigi: gli uni positivi e a volte esaltanti, gli altri negativi e spesso avvilenti, e i grigi al livello dell’indifferenza.
Sappiamo anche che nei momenti più cupi è facile che si desideri la morte, che ci sono persone fragili (o patologiche) per le quali tali desideri sono più frequenti, e che tali momenti si superano in vista e per la speranza di un ritorno al positivo, che ripaga le negatività. La riflessione millenaria che ha preso corpo nel senso comune ci porta a dare per scontato che sia sempre possibile tornare al positivo, che “la speranza è l’ultima a morire” e che “la morte è il peggiore dei mali” (la sua definitività non consente alcun ritorno al positivo). Quest’opinione ricevuta del senso comune interpreta e regola le situazioni normali dell’esistenza.
Assodato che quello delineato è il canone ricevuto, c’è da chiedersi se esso sia ancora valido nelle attuali circostanze storiche, o se invece, oggi, non ci siano situazioni delle quali sappiamo con ragionevole certezza che la vita biografica sarà ormai sempre negativa e senza possibilità alcuna di ritorno al positivo.
Chiamo condizione infernale questa situazione e affermo che essa – non la morte – è il peggiore dei mali. Già ho detto qualcosa a tale proposito nel contributo su QS del 26 novembre scorso, e qui cerco di dare precisare meglio.
Per definizione, la morte è assenza di vita e quindi cessazione di ogni qualità della vita, per cui in una rappresentazione sull’asse cartesiano si è sullo zero. Nella condizione infernale, invece, la qualità della vita è sempre di segno negativo perché c’è o dolore o indegnità esistenziale, cioè uno stato di limbo privo di dignità perché non voluto dall’interessato quand’era capace (es. lo stato vegetativo permanente). In queste circostanze, come dice Beppino Englaro, non è “la speranza l’ultima a morire”, ma è “il morire l’ultima speranza”.
Come sopra ci siamo chiesti se l’opinione ricevuta del senso comune sia ancora valida oggi, così ora dobbiamo chiederci anche se esista davvero la condizione infernale o se essa sia invece solo un’ipotesi astratta e di scuola. Che esista è indubbio e lo si è sempre saputo: l’agonia dei soldati colpiti in battaglia, il supplizio o la tortura in cui il malcapitato viene volutamente tenuto in uno stato di permanente dolore prima del colpo di grazia, sono casi di condizione infernale.
Tuttavia, forse per la loro eccezionalità, la presenza di queste situazioni non ha né intaccato né scalfito l’opinione ricevuta del senso comune, che ancora vale anche per i casi di malattia: la grande incertezza delle diagnosi e prognosi ha sempre lasciato aperto un significativo margine di speranza di ritorno al positivo, e ciò ha avvalorato la tesi.
Oggi, però, la realtà è cambiata, perché i progressi scientifici realizzati dalla Rivoluzione biomedica ci consentono di avere diagnosi affidabili grazie alle quali individuare con ragionevole certezza casi di condizione infernale, e più in generale le crearne di nuovi.
A nessuno piace l’espressione accanimento terapeutico, che però rende bene l’idea dei disastri cui la medicina può portare. In questi casi, come in quelli sopra menzionati (supplizio, tortura) la vita cessa di essere un bene e la morte non è più il peggiore dei mali rispetto alla condizione infernale che incombe.
Anche la sentenza prende atto che la realtà è cambiata e dubita della validità delle norme ricevute laddove rileva che oggi abbiamo a che fare con “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali” (Sentenza 242/19, 2.3).
Né la sentenza 242/19 né la L. 219/17 usano i termini e le categorie qui introdotte, ma grazie a questi concetti è possibile chiarire il quadro sotteso a tali istanze normative. Entrambe riconoscono che le nuove capacità tecnico-scientifiche rendono possibile, reale e significativa la nuova figura che prima non c’era: la condizione infernale. Per evitare che essa si crei, la L. 219/17 riconosce al paziente il diritto (perfetto) di rifiutare i trattamenti non voluti, affermando così il diritto del paziente a non essere fatto entrare nella condizione infernale.
La sentenza 242/19 prende atto di questo diritto e osserva come a volte la condizione infernale si crei da sola, senza bisogno di interventi clinici. In questi casi la sola sospensione degli interventi prevista dalla 219/17 fa sì che “il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze” di quanto avverrebbe se avesse un aiuto a morire.
Se già oggi la 219/17 riconosce il diritto del paziente di non entrare nella condizione infernale, non si capisce come mai non si possa riconoscere al paziente anche il diritto di uscire al più presto grazie all’aiuto a morire da un’analoga condizione infernale in cui si è entrati altrimenti. La conclusione della Corte è che la presenza del “divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze […] imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita” (Sentenza 242/19, 2.3).
Partendo dall’idea che la medicina è ora in grado di creare situazioni un tempo inimmaginabili, la Corte prende atto che in ambito clinico oggi si danno condizioni infernali, peggiori della morte e assume che ci sia il diritto di non stare nella condizione infernale. La L. 219/17 lo riconosce dando al paziente il diritto di rifiutare i trattamenti che hanno come esito la morte così da evitargli di entrare nella condizione infernale.
Se, però, già di suo un paziente si trova nella condizione infernale la 219/17 non basta, perché la mera sospensione dei trattamenti non consente all’interessato di uscirne al più presto. Ecco perché la Corte conclude che l’avere un’unica modalità di morire è un’irragionevole e ingiustificata limitazione della autodeterminazione del malato, e perché la sentenza 242/19 apre a un’altra modalità, quella che prevede il diritto di farsi aiutare a morire.
Altro che dire che “morire non è un diritto” o che la Corte avrebbe elevato “argini al suicidio assistito”: la sentenza 242/19 ha aperto un’autostrada al diritto di morire, nel rispetto dei vincoli costitutivi del caso. Il passo compiuto dalla sentenza è di portata storica e pone l’Italia all’avanguardia nel mondo: l’auspicio è che ora i medici italiani colgano la sollecitazione e rispondano con la stessa apertura di pensiero.
Maurizio Mori
Ordinario di Filosofia Morale e Bioetica, Università degli Studi di Torino Presidente Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica
Direttore di Bioetica. Rivista interdisciplinare
19 dicembre 2019
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