Perché i medici britannici hanno fatto bene a sospendere le terapie a Indi

Perché i medici britannici hanno fatto bene
a sospendere le terapie a Indi

14 novembre 2023

Articolo di Maurizio Mori pubblicato su Strisciarossa

Per capire che è successo e che cosa sta succedendo circa il caso Indi è bene partire ab ovo, come si dice. Indi Gregory è una neonata britannica di 8 mesi affetta da una malattia mitocondriale inguaribile che porta a morte certa e inevitabile in breve tempo: su questo sono d’accordo tutti e non c’è dubbio. Se fosse nata anche solo 50 anni fa sarebbe morta pressoché subito, ma i progressi della medicina che stanno alla base della Rivoluzione biomedica ci hanno dato nuove conoscenze e tecniche per cui, grazie all’aiuto delle macchine e di altre terapie, Indi ha potuto sopravvivere alcuni mesi, curata nel miglior modo possibile e senza “badare a spese”: questo mi pare un fatto estremamente buono e positivo. Un successo per l’umanità.

Malattia inguaribile che porta a morte certa

Assodato questo, si presenta una domanda: è giusto aiutare sempre la vita, o c’è un limite oltre il quale ci si deve fermare perché l’aiuto diventa negativo e si trasforma in danno? La domanda è semplice, ma risposta è a dir poco intrigante, perché – se ne abbia o no consapevolezza, piaccia o no – essa distingue nientemeno che due visioni del mondo o due opposti paradigmi morali.
Il punto emerge non appena si consideri che chi risponde che c’è un limite da non oltrepassare presuppone che la stessa vita (il vivere) sia un bene come altri: analogo alle varie situazioni entro la vita. Per esempio, per chi ha sete il primo sorso d’acqua è buono e meraviglioso, ma se si deve continuare a bere, dopo un certo limite si prova disagio e poi diventa una tortura. Così capita anche con la temperatura: se fa freddo è ottimo avere un cappotto che ci riscaldi, ma se fa caldo il continuare a indossarlo diventa un tormento.

Gli economisti in questi casi parlano di “utilità marginale decrescente”, criterio che sicuramente vale entro la vita: ma, ci si può chiedere, è criterio applicabile anche alla vita stessa? Non è che la vita in sé, in quanto tale cioè in quanto vita, è sempre buona a prescindere da eventuali esperienze negative che si possono presentare entro di essa? In altre parole: è la vita riducibile alle esperienze di vita o entro la vita (l’aver sete, caldo, freddo, etc.) o è la vita qualcosa che eccede da e va al di là delle esperienze di vita e procede di suo proprio secondo modalità specifiche che non rispondono e sono irriducibili alle varie esperienze di vita?

Ci dev’essere un limite alle terapie?

Queste domande ci riportano all’altra risposta al quesito iniziale. Se da una parte c’è chi afferma (come abbiamo visto) che c’è e ci deve essere un limite alle terapie, superato il quale si fanno danni positivi e seri, d’altra parte c’è chi ritiene che la vita in sé come tale risponda a una logica propria diversa da quella che governa le esperienze interne alla vita e che per questo la vita deve essere sempre sostenuta e aiutata a mantenersi. In questo senso a volte si dice che alla base di chi sostiene che, quando si ha a che fare con la vita (umana) in sé la situazione è speciale e del tutto diversa da altre situazioni entro la vita, sta la prospettiva della “sacralità della vita”.

Anni fa erano in molti a sostenere con orgoglio e vigore che la vita (umana) è sacra, mentre oggi si tende a evitare il termine che, rimandando all’ambito religioso, limiterebbe ai soli fedeli.
Non sto qui a discutere il punto, ma da quanto detto spero sia emersa con chiarezza la differenza tra i due opposti paradigmi morali. Da una parte c’è chi (religione o no) sostiene la “sacralità della vita” in quanto afferma che la vita in sé ha un proprio valore intrinseco per cui è irriducibile al valore delle esperienze che la compongono, e per questo richiede un rispetto del tutto speciale: la vita in quanto tale è così sottratta all’utilità marginale decrescente riscontrabile nelle altre situazioni e non rientra per niente nella logica “utilitarista”. Di qui l’idea che non bisogna mai abbandonare il paziente sospendendo le cure, e che la morte volontaria è inaccettabile.

Situazioni infernali e accanimento terapeutico

Dall’altra parte c’è chi, invece, sostiene la “qualità della vita” in quanto afferma che la vita (umana) in quanto tale non ha un valore intrinseco in sé, ma è buona fintanto che le condizioni consentono un adeguato e positivo livello di qualità della vita. Può capitare che si creino quelle che ho chiamato “situazioni infernali”, cioè condizioni in cui la vita o è solo sofferenza senza possibilità di ritorno al positivo, oppure è solo un vegetare essendo per sempre persa la capacità biografica (come quando si finisce in Stato Vegetativo Permanente o altre condizioni simili). Di qui l’idea che ci sia il dovere morale di evitare le situazioni infernali, cosa che può esser fatta sia sospendendo le terapie che porterebbero a ciò che si usa chiamare “accanimento terapeutico” sia troncando il processo vitale (suicidio medicalmente assistito).
Chiarite le due opposte prospettive etico-filosofiche, veniamo alla situazione di Indi. Sin dalla nascita Indi ha manifestato difficoltà e è stata prontamente e ottimamente curata, sostenuta e accudita – senza badare a spese. Medici e ospedale han fatto di tutto per Indi: il problema si è presentato quando si è visto che la malattia è inguaribile e che non solo non c’erano speranze di ritorno alla normalità, ma anche che continuare il sostegno vitale avrebbe comportato “accanimento terapeutico”, cioè creare una situazione infernale.

Cure sospese, non per questioni di budget

È per questo che i medici, coscienziosi e attenti al bene di Indi, hanno pensato di continuare a prendersi cura di lei con le cure palliative per evitare che soffrisse ma al tempo stesso di sospendere i sostegni vitali e lasciare che Indi morisse.
Non sono state ragioni di budget (come han detto alcuni) a richiedere la sospensione delle terapie, ma ragioni di dignità e di rispetto per Indi stessa, perché continuare sarebbe stato solo un prolungamento delle sue sofferenze senza la possibilità di arrivare a una vita minimamente normale. Basta leggere le sentenze dei vari giudici per cogliere il peggioramento delle condizioni di salute della bambina e le sofferenze comportate da un’eventuale insistenza (per un utilissimo riepilogo, cfr. l’articolo di Giulia Alessi e Rosa Signorella). I medici hanno il dovere di evitare l’accanimento terapeutico, situazione infernale analoga a quella di chi è sottoposto a tortura.
I genitori di Indi hanno rifiutato il programma terapeutico. Le ragioni al riguardo non sono sempre chiare. Sia dalle sentenze sia da alcune dichiarazioni rilasciate alla stampa sembra che il padre fosse convinto che Indi potesse continuare a vivere “bene” e crescere per alcuni anni se non addirittura che potesse “guarire”: tesi quest’ultima irreale, tanto che anche i medici del Bambin Gesù (Vaticano) hanno concordato sul giudizio clinico dell’Ospedale. Nessuna speranza, e anche loro avrebbero offerto solo le cure palliative: le stesse proposte a Nottingham, visto che quella specialità è stata inventata in Gran Bretagna e noi italiani siamo andati a imparare.

Perché il Bambin Gesù ha accettato di accogliere Indi

Perché allora il Bambin Gesù ha accettato di accogliere Indi? Che cosa poteva offrire di più che già non fosse dato a Nottingham? A quel che si è letto sulla stampa, il di più sarebbe stato il supporto ai genitori che non volevano il distacco. Qui l’altro grande problema sollevato dal caso Indi: ma perché i medici non hanno assecondato i genitori? Non spetta ai genitori decidere dei figli? Prima di rispondere, un’osservazione generale.

I genitori non sono i “padroni” dei loro figli, ma li hanno in custodia e esercitano la potestà genitoriale in quanto sono coloro che per tante ragioni hanno a cuore la tutela del bene dei figli: il best interest of the child, come dicono i giudici inglesi. Può capitare, e ahinoi a volte capita, che i genitori non siano in grado di provvedere al miglior interesse del bambino, o che non esercitino con avvedutezza la responsabilità genitoriale. Quando capita questo, la società interviene e toglie la genitorialità al fine di garantire il bene del bambino.
Quest’idea generale non vale solo quando i genitori “abusano” in qualche modo dei figli (es. non li nutrono, li spingono al crimine, etc.), ma si applica anche ove chiedessero l’accanimento terapeutico per i loro figli. In questo caso, i medici fanno bene, benissimo, a tutelare il best interest dei minori che hanno in carico, chiedendo al giudice di intervenire. Anche in Italia è così, almeno in teoria: perché nella pratica i pediatri italiani sono meno propensi a creare difficoltà.

Il contrasto tra giudici e genitori

Visto che il conflitto tra i genitori di Indi e i medici non era componibile, l’unica strada percorribile era quella del giudice. Purtroppo la stampa nostrana ha presentato i giudici britannici come degli azzeccagarbugli, freddi burocrati privi di cuore e sentimenti. Basta però scorrere le sentenze per vedere che così non è, e cogliere la grande dedizione (e pazienza) prestata per tutelare il best interest di Indi.

Arriviamo così al fondo del contrasto di valori tra il padre e il giudice, contrasto insanabile. Come ho detto l’origine del disaccordo non è sempre chiara: a tratti sembra che il padre credesse nella possibilità di “guarigione” di Indi. In questo caso, semplicemente i genitori sono stati in qualche modo illusi e era compito del giudice riportarli alla realtà: punto e basta.

Altre volte, invece, alcune parole del padre fanno pensare che la richiesta di continuare le terapie dipendesse da un’implicita adesione alla sacralità della vita, convinto che la sospensione delle terapie comportasse un indebito “abbandono” con anticipazione volontaria della morte. In questa prospettiva, come abbiamo visto, il valore della vita è “intrinseco” alla vita stessa e non dipende affatto dalla sua “qualità” (positiva), per cui il “best interest” non può mai essere la “morte” né si può parlare di “accanimento terapeutico” perché la morte è il peggiore dei mali e follia è la tesi della “condizione infernale”.

L’uso politico del caso di Indi

In questo secondo caso, il giudice britannico ha affermato la “qualità della vita” come valore centrale, in contrasto con la prospettiva dei genitori di Indi che sono stati per questo subito supportati dai pro-vita, dall’ospedale Bambin Gesù, e dal governo italiano. In Italia il caso Indi è stato usato per cercare di riaffermare, almeno in ambito pediatrico, un qualche scampolo di sacralità della vita e mettere in cattiva luce il criterio del best interest of the child. Quando si tratta di bambini il gioco sembra ancora avere presa, e molte testate hanno abboccato alla retorica vitalista criticando la soluzione inglese. Se si riflette un momento, invece, è la richiesta italiana a essere dissennata e puramente ideologica. Non averlo capito subito è stata un’altra occasione persa per la crescita morale e sanitaria del nostro paese.

2 thoughts on “Perché i medici britannici hanno fatto bene a sospendere le terapie a Indi”

  1. Condivido assolutamente con il Prof Mori che l’aver sospeso i supporti vitali alla piccola Indi sia stato solo e soltanto per il suo bene, nel rispetto della sua vita la cui qualità era tale da non meritare più di vivere.
    Mi sorge una domanda che ad oggi non ho mai sentito pronunciare da nessuno tra tutti coloro che si sono occupati di questo triste caso umano. La mia domanda è la seguente: se i medici britannici fin dalla diagnosi sapevano che la malattia di Indi era di tipo degenerativo fino alla morte, perché, allora, aver atteso 8 mesi della sua breve esistenza all’insegna di terapie che le procuravano solo sofferenza?

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