Omosessuali si nasce o si diventa? Jacques Balthazart e la sua “Biologia dell’omosessualità”
Solo tra il 2019 e il 2020 si sono registrati (mediante giornali e dichiarazioni pubbliche) 138 episodi di omotransfobia. Di questi, 32 sono state vere e proprie aggressioni, 13 gli adescamenti finalizzati alla rapina, al ricatto o all’estorsione, 9 le violenze familiari, 31 le discriminazioni o le offese in luoghi pubblici, 17 le scritte denigratorie su muri, abitazioni, auto e 25 i fenomeni di hate speech e di incitazione all’odio, verificatisi online – e in presenza – e provocati da politici e movimenti ideologici (fonte Arcigay).
Bistrattati, umiliati, insultati: i membri della comunità LGBTQI+ continuano a subire l’astio di chi persevera a considerarli “malati”, “diversi”, “inaccettabili”, provocandone, così, la ritrosia a vivere con serenità le proprie inclinazioni e relazioni in determinati contesti. Le indagini condotte dall’ultimo sondaggio di Arcigay rivela, infatti, che il 62% degli omosessuali evita di tenere per mano il proprio partner in pubblico, mentre il 30% afferma di eludere certi luoghi per la paura di essere vittima di aggressione.
In attesa che il ddl Zan (contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo) sia sottoposto all’esame del Senato, è forse opportuno, dunque, ripercorrere le ragioni di tale livore e decostruirne i pregiudizi alla base. A partire da un quesito: qual è l’origine dell’omosessualità?
La medesima domanda che ha guidato anche le riflessioni di Jacques Balthazart, biologo belga specializzato in Neuroendocrinologia del comportamento e autore del trattato “Biologia dell’omosessualità. Eterosessuali o omosessuali si nasce, non si diventa”, edito recentemente da Bollati Boringhieri. Come suggerisce il sottotitolo – citazione “capovolta” della celeberrima frase della filosofa Simone de Beauvoir –, l’assunto di partenza del volume è l’idea secondo la quale «[…] in genere non si diventa omosessuali, né si sceglie di esserlo: si nasce omosessuali».
L’origine di tale orientamento, quindi, non sarebbe da rintracciare «nell’atteggiamento dei genitori o nelle decisioni coscienti dei soggetti interessati», bensì nella biologia stessa degli individui. Ne deriva che l’omosessualità avrebbe una causa “endogena” e sarebbe il risultato dell’ambiente ormonale cui è esposto l’embrione, sul quale influirebbero anche predisposizioni genetiche più o meno penetranti – proprio come succede in molte altre specie animali.
Un piccolo riepilogo: il cervello e gli steroidi sessuali
Se l’orientamento sessuale non dipende – esclusivamente – da fattori ambientali e sociali, ne consegue, perciò, che a ricoprire un ruolo determinante nello sviluppo della propensione omo- o eterosessuale siano proprio i fattori biologici, e, nello specifico, l’azione degli ormoni prodotti dalle gonadi, ossia i testicoli, nel maschio, e le ovaie, nella femmina. A livello cerebrale, tali attività trovano la propria collocazione nell’encefalo, e, nello specifico, nelle sue regioni più antiche: ipotalamo e area preottica.
Per comprenderne pienamente il funzionamento, occorre, tuttavia, effettuare un passo indietro e ripercorrere le tappe principali del percorso che conduce alla determinazione del sesso. A partire dalla divisione cellulare, nel corso della quale il DNA, concentrandosi nel nucleo, forma le ventitré coppie di cromosomi contenenti ciascuna una copia delle informazioni genetiche ereditate dal padre e dalla madre, e di cui l’ultima, com’è noto, è costituita da XY, nel caso del maschio, o da XX, nel caso della femmina.
Le strutture genitali, inizialmente identiche, daranno, poi, luogo alla differenziazione del tessuto embrionale in testicoli e ovaie, il cui sviluppo culminerà nella pubertà, durante la quale gli ormoni secreti dalle gonadi – rispettivamente, testosterone ed estradiolo-progesterone – assumeranno il controllo della funzione riproduttiva tipica dell’adulto, correlandosi alla maturazione finale dell’apparato genitale, alla comparsa dei caratteri sessuali secondari e al comportamento sessuale vero e proprio.
A manovrare gli aspetti fisiologici della riproduzione vi sono, infatti, gli ormoni steroidei, ovvero androgeni, estrogeni e progestinici: composti di natura lipidica, essi vengono sintetizzati a partire dal colesterolo e traggono origine nelle gonadi e nelle ghiandole surrenali. Il loro compito, però, non si esaurisce nella produzione delle cellule sessuali, ma è implicato anche nella diffusione degli ormoni impiegati proprio nel controllo dei comportamenti sessuali. Cervello e incontro tra i sessi sono, così, strettamente connessi. E si influenzano a vicenda.
Il cervello maschile e il cervello femminile, tuttavia, non sono identici. Come spiega Balthazart, appunto, «le risposte comportamentali agli steroidi, sessualmente differenziate, derivano da azioni precoci di quegli stessi ormoni che nel corso dell’ontogenesi hanno diversificato il cervello in uno maschile o femminile». Effetti che si attuano nel cosiddetto «periodo critico» – in cui il cervello è ancora plastico e, quindi, soggetto a modifiche – e, soprattutto, risultano essere completamente irreversibili. «Se il testosterone o l’estradiolo sono presenti nel periodo critico e hanno avuto l’opportunità di maschilizzare e/o defemminilizzare il comportamento sessuale», prosegue lo studioso, «tali effetti organizzativi restano presenti durante tutta la vita dell’animale». Motivo per cui, nella maggior parte dei casi, l’orientamento sessuale e l’identità di genere non sono “decisioni” coscienti, bensì inclinazioni cui, spesso, si “soccombe” perché inevitabili – volente o nolente.
Esempi clinici che corroborano l’origine ormonale e genetica dell’omosessualità
Comprendere i meccanismi che determinano l’omosessualità è, naturalmente, complesso, in particolare a causa dell’impossibilità – etica e non solo, considerata la latenza di circa venti anni del suo “manifestarsi” – di condurre esperimenti atti a rintracciare le correlazioni tra gli atteggiamenti dell’animale e dell’uomo che ne possano confermare l’effettiva similitudine e affinità.
Vi sono, però, alcuni elementi che possono venirci in soccorso. Come nota Balthazart, infatti, «l’omosessualità non consiste semplicemente in un orientamento sessuale differente, ma si accompagna anche a svariate modificazioni morfologiche, fisiologiche e comportamentali», che concernono, nella maggior parte dei casi, «delle caratteristiche che nella popolazione eterosessuale sono sessualmente differenziate». Tra queste, si annoverano il funzionamento dell’orecchio interno e di specifiche regioni del cervello, il mutamento significativo di alcune capacità cognitive – come le attitudini verbali – e differenze morfologiche relative alla struttura degli arti e di regioni cerebrali: aspetti che, quindi, denoterebbero in maniera indiretta, ma piuttosto palese, che «l’omosessualità non può essere unicamente una scelta di vita», bensì sarebbe il risultato (anche) di modificazioni ormonali avvenute nell’individuo durante la fase embrionale.
Per spiegare l’esposizione atipica agli steroidi sessuali durante questo periodo, sono state avanzate tre ipotesi:
a) La prima vedrebbe «un abbassamento dei livelli circolanti di testosterone nell’embrione in seguito a un evento esterno come uno stress intenso e cronico subito dalla madre gestante, che impedirebbe la completa maschilizzazione di un embrione maschile e ne indurrebbe l’orientamento omosessuale in età adulta»;
b) La seconda, invece, si riferisce alla possibilità di variazioni casuali delle concentrazioni ormonali, tali da indurre un fenotipo perturbato;
c) La terza, infine, prende in considerazione eventuali differenze genetiche, tali da produrre «un’anomalia nei livelli circolanti di ormoni, una perturbazione della risposta del cervello a questi ultimi o, ancora, un effetto indiretto sull’orientamento sessuale», a prescindere dalla presenza o meno di variazioni ormonali.
Le tesi sono tra loro concatenate. Una mera spiegazione ormonale, infatti, non sarà mai esaustiva, dal momento che sarà sempre opportuno individuare anche ciò che causa la stessa condizione ormonale anomala. Nel corso degli anni si sono, così, sviluppati molteplici studi circa le differenze genetiche individuali che influenzerebbero l’orientamento sessuale umano, sia direttamente, sia indirettamente – tramite gli ormoni.
Un caso esemplificativo, in questo senso, ci è offerto da alcune ricerche sulla potenziale trasmissione per via genetica dell’omosessualità – in questo caso maschile – basate sull’analisi degli alberi genealogici. Come riporta il biologa belga, appunto, «la variabile legata in modo più solido a questo tipo di orientamento è senza dubbio il numero di fratelli maggiori nati dalla stessa madre» e, sebbene il meccanismo – oggetto di disamina, da più di venticinque anni, da parte del canadese Ray Blanchard – non sia ancora stato individuato nelle sue peculiarità, è altamente probabile che comporti un contributo genetico. Nello specifico, lo studio rivela che «per ogni fratello più anziano che un soggetto sperimentale possiede, la sua probabilità di essere omosessuale aumenta del 33%». Questa incidenza si spiegherebbe con l’ipotesi dell’immunizzazione materna progressiva, la quale suppone che «le madri di figli maschi che ne abbiano già avuti altri in precedenza producano degli anticorpi che contrastano delle proteine maschili, ancora non identificate, e che questi anticorpi influenzino lo sviluppo di certi aspetti del cervello che sono implicati nella determinazione dell’orientamento sessuale».
Naturalmente si tratta solo di uno dei molteplici lavori in atto sul tema, ben lungi, al momento, da condurre alla comprensione delle sue reali dinamiche causali. Ciò che emerge con chiarezza dal trattato di Balthazart, tuttavia, è come tutti i meccanismi biologici o genetici attualmente individuati siano determinanti nell’acuire la comparsa dell’omosessualità, ma non siano, da soli, sufficienti nel provocarne l’origine. Si tratterebbe, piuttosto, di una commistione di geni, ormoni, meccanismi biologici e ambientali, il cui connubio sarebbe fondamentale anche nella delineazione della stessa identità di genere.
Mediante una sequela di casi clinici, studi e riflessioni ponderate, dunque, l’autore costruisce un volume chiaro, terso nei ragionamenti e funzionale anche a chi è poco avvezzo alla materia, grazie a un linguaggio piano e agli schemi conclusivi che riassumono con strenua efficacia quanto esposto nei singoli capitoli. Il cui percorso offre, in questo modo, una prospettiva inedita su un aspetto della natura umana prismatico e, forse, ancora poco soggetto a una comprensione completa della sua strutturazione, ma nei confronti del quale il volume dona strumenti utili per ampliare gli orizzonti e affrancarsi, così, da tesi desuete e spesso atte a problematizzare inclinazioni e comportamenti che tali, “naturalmente”, non sono.