Nuovo appuntamento per il Bioethical Club, che nel mese di aprile si è riunito per discutere a proposito del numero chiuso previsto da alcune facoltà universitarie e delle problematiche e conseguenze che ne derivano.
Ma partiamo dalle origini. Nel 1966, un decreto legge afferma che tutti coloro che posseggono un diploma possano accedere alla facoltà di Medicina – fino al 1923, l’accesso era consentito solo ai detentori di maturità classica. Come supposto, nel corso degli anni successivi, gli iscritti giungono a quota elevatissima: sono, infatti, circa 1200/1800 i ragazzi e le ragazze che decidono di intraprendere tale corso di studi, con un conseguente aumento spropositato del numero di medici rispetto alla richiesta corrente.
Nel 1987, dunque, in linea con alcuni atenei di nazioni appartenenti all’Unione Europea – che, nella seconda metà degli anni ’80, sottolinea la necessità di garantire, in tutti i paesi membri, un determinato standard qualitativo nell’ambito dell’istruzione universitaria –, il ministro Ortensio Zecchino avanza un decreto ministeriale, divenuto legge nel 1999, il quale introduce il numero chiuso per la maggior parte delle facoltà a carattere scientifico e, perciò, un test di ingresso scritto e uno orale – quest’ultimo non obbligatorio.
Di qui, episodi di nepotismo, raccomandazioni, ricorsi da parte degli esclusi e discussioni relative alle graduatorie. Il dilemma morale che si impone è, quindi, il seguente: quanto questi test hanno la capacità di selezionare colui che sarà, nel caso specifico, un buon medico? I test di ammissione, con domande a scelta multipla, sono idonei a esplorare ciascuna forma di preparazione?
È indubbio che lo scenario attuale veda una carenza di specialisti e dottori di medicina generale, insufficienza che dimostra chiaramente l’assenza di test opportuni. A fronte di quest’ultima, sono state molteplici le proposte e le alternative avanzate in sede di discussione. A guidarla, il quesito: come elaborare una soluzione di qualità, non basata meramente sulla quantità?
In primo luogo, si è presentata l’ipotesi di effettuare, anche o in luogo delle prove correnti, un test attitudinale mirato a scartare tutti i soggetti affetti da psicosi, perché poco empatici ai fini di questa professione e, nella maggior parte dei casi, pericolosi.
Considerato, in seguito, anche il fatto che spesso, al momento di sottoporsi a tali prove d’esame, i giovani adulti non siano maturi a sufficienza e, inoltre, abbiano qualità ancora in germe e inespresse, che potrebbero rivelarsi nella loro totalità solo successivamente. Sarebbe, dunque, opportuno verificare i professionisti periodicamente? Inseguire un’inverosimile oggettività, infatti, causa i mali peggiori e copre molteplici nefandezze, giustificate da meri superamenti di test e concorsi.
E ancora, non sarebbe forse utile seguire l’esempio offerto dalla Francia, negli atenei della quale i primi due anni risultano essere a ingresso libero e solo in seguito si attua un avanzamento di carriera per coloro che posseggono una media superiore al 27?
Infine, bisogna guardare all’effettivo fabbisogno di medici – il quale si calcola in base al turnover prevedibile e alla carenza prevista – o alla capienza delle strutture che ospitano gli allievi? E poi, è effettivamente tale la carenza di queste ultime, o è solo un problema di disorganizzazione?
Non esistono, al momento, conclusioni o risposte certe, ma solo la consapevolezza che, in ogni caso, i diversi livelli di formazione scolastica che accompagnano lo studente alla scelta della facoltà, qualunque essa sia, ad accesso chiuso o aperto, debbano essere sostenuti e rivolti alla preparazione di un cittadino massimamente preparato e conscio delle proprie potenzialità, latenti o manifeste.