Cronache di un incontro morale: la triptorelina e la sua liceità – di Roberta Scalise

G. ha dieci anni. Ogni mattina si sveglia con un nodo alla gola e una pesantezza vischiosa sul petto: una sensazione di disagio esistenziale che accompagna le sue giornate già da un paio di anni, ma alla quale non ha ancora trovato un nome adeguato. Ogni mattina, G. va in bagno e guarda con disgusto le sue parti intime pensa, “non vorrei essere così”. E, ogni mattina, il riflesso dello specchio che ritrae i contorni della sua figura gli risulta ingiusto, alienato, sconnesso, così come la cernita dei vestiti che abita il suo guardaroba.

G. ha dieci anni e ha la disforia di genere. Probabilmente non lo sa, ma è questa l’espressione maggiormente idonea per descrivere quello stato di scollamento, dolore e incongruenza che G. percepisce, ogni giorno, tra il genere espresso e le caratteristiche sessuali primarie o secondarie che si ritrova assegnate. Una condizione di “disconoscimento” psicologico in cui versano anche tanti altri suoi coetanei – circa novanta casi potenziali all’anno, in Italia –, mossi anch’essi dal desiderio di modificare il proprio corpo sessuato, da maschio a femmina o da femmina a maschio, o di modificare la propria esistenza tramutandola in uno stato di ambiguità sessuale – non vigendo una corrispondenza tra sesso e genere percepito.

Quali potrebbero essere, dunque, gli interventi più corretti e moralmente leciti per alleviare la sofferenza di questi giovani distanti dal proprio sé? Come esplicato nel corso dell’incontro di dicembre del Bioethical Club – presieduto dal professor Mori e condotto dalla psicologa clinica Chiara Crespi e dall’endocrinologa Giovanna Motta –, una soluzione adeguata a casi come quello di G. potrebbe consistere nella somministrazione della triptorelina.

La triptorelina è un farmaco antitumorale utilizzato con successo da diversi anni e finalizzato al trattamento dei sintomi del tumore alla prostata in fase di sviluppo avanzato: attraverso iniezioni intramuscolari, è in grado di ridurre la produzione di alcuni ormoni e, conseguentemente, di diminuire i livelli di testosterone nell’organismo.

Se usufruita off label – ossia in modalità diverse dalle indicazioni cliniche iniziali –, tuttavia, la triptorelina risulta anche in grado di sospendere lo sviluppo puberale nei casi in cui si riscontri una pubertà precoce – o “patologica” – ed evitarne, così, danni permanenti – tra cui lo sviluppo osteoarticolare, muscolare e metabolico –, limitatamente a soggetti di età inferiore agli otto anni, nelle bambine, e ai dieci, nei bambini.

Ma non solo: la somministrazione del farmaco, infatti, appare indicata anche per trattare la suddetta disforia di genere, risultando un’alleata preziosa nel “prendere tempo” e comprendere quali interventi apportare circa l’eventuale riassegnazione del genere stesso. Bloccando la comparsa dei caratteri sessuali secondari, dunque, il farmaco pone l’adolescente in una sorta di “limbo”, nel quale offrire una pausa momentanea al patimento e alla contraddittorietà di genere che percepisce – e “sente” – con insistenza – e da almeno sei mesi.

In particolare, però, la triptorelina agisce con estrema efficacia sulle fragilità e le sensibilità dei soggetti agenti, caratterizzati spesso da disagi profondi e patologie psichiche o psichiatriche, quali: disturbi dell’emotività, ansia, anoressia, autolesionismo, tendenza al suicidio, psicosi, dimorfismo corporeo, drop-out scolastico elevato e affini.

Dolori incommensurabili, difficili da “valutare” – se non vissuti in prima persona – e fonte di contraddizioni e pareri dissimili, in quanto poco intesi e identificabili. Il quesito nevralgico della discussione etica risiede, infatti, proprio nella liceità della condizione di sospensione e incertezza generata dalla somministrazione della triptorelina, causa di un’assenza di libertà e di sperimentazione che potrebbe inficiare la capacità del giovane di decidere sul suo corpo e sulla sua conseguente espressione di genere.

Sarebbe possibile scoprire se stessi e le proprie intenzioni, anche nel disagio più abissale? O la sofferenza risulta essere così atroce e intollerabile da richiedere necessariamente un periodo di neutralità e allontanamento dal proprio genere di provenienza, prima di assumere ormoni cross-sex? E poi, ancora: sarebbe lecito considerare la triptorelina come la prima scelta – al pari del modello olandese –, o sarebbe, invece, opportuno intervenire massivamente sul contesto familiare e sociale in modo tale da tentare di alleviare, almeno inizialmente, le percezioni di incongruenza? In definitiva: sarebbe eticamente giusto apportare modifiche irreversibili a organi medicalmente sani mediante un farmaco privo – al momento – di effetti collaterali, o sarebbe necessario, al contrario, attendere e adoperarsi solo quando la sofferenza rivela limiti così insopportabili da minacciare il suicidio?

È evidente che, come nella maggior parte dei casi di caratura bioetica, sia lecito perseguire principi prima facie, e mai assoluti, al fine di garantire il benessere sociale e l’autodeterminazione degli individui coinvolti. E proprio nel solco di tali “luci guida”, il relativismo e l’atteggiamento di prudenza potrebbero risultare gli indicatori più appropriati per fronteggiare condizioni delicate come la disforia di genere e le sue molteplici declinazioni. Consentendo, così, di perseguire la promozione del rispetto, della libertà e del benessere che si addicono a una società che ama definirsi civile.

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