Pubblicato sul il manifesto del 23 novembre 2017
Papa Francesco con le sue ultime dichiarazioni ha ormai abbattuto l’ultimo diaframma che separava il solo mondo cattolico (le chiese protestanti – ad esempio i Valdesi – oggi ormai ragionano sulla liceità morale dell’eutanasia ) dal diritto all’autodeterminazione in materia sanitaria? Ha affermato il diritto del paziente a non iniziare o interrompere terapie anche qualora questo comporti la morte? È in atto pertanto un cambio di paradigma con la ovvia conseguenza di rivedere il giudizio sui casi Welby, Englaro, Piludu, ovviamente senza voler includere i casi di suicidio assistito come Lucio Magri, Dj Fabo, Loris Bertocco ed altri? Il dubbio rimane – almeno per questo modesto osservatore – analizzando con maggior attenzione le sue parole.
L’attuale Papa ribadisce un ormai vecchio concetto del catechismo della Chiesa, «non procurare la morte, ma accettare di non poterla impedire», che risale addirittura a Pio XII per giustificare l’uso della morfina anche quando questa accelera la morte del paziente terminale. È vero che sottolinea l’importanza della volontà del paziente ma sempre embricata con la figura del medico per valutare assieme la proporzionalità delle cure. Solo se queste infatti risultano «non proporzionate» o – come talora definite – «non appropriate alla condizione clinica» allora sarà lecito interromperle.
Ora, anche se il termine proporzionalità non è di natura tecnico-sanitario ma di provenienza etico-morale, è chiaro che una terapia non appropriata non dovrebbe neanche essere proposta né quantomeno già iniziata dal buon medico. Si scadrebbe nella cosiddetta «futility» – concetto assai concreto ma differente dall’indefinibile e pertanto indefinito accanimento terapeutico – che non necessita di particolari valutazioni morali per risultare ovvio che non sia da praticare.
Mentre rimane il dubbio interpretativo se trattamenti sanitari pur assolutamente appropriati o, per dirla con termine teologico «proporzionati», possano essere rifiutati dal paziente. Il respiratore meccanico per Welby o la nutrizione artificiale per Eluana Englaro erano assolutamente indicati clinicamente, ancorché dagli stessi rifiutati. La loro vita poteva continuare per un tempo indefinito se fossero stati mantenuti.
È stato pertanto moralmente lecito – secondo il supposto “nuovo corso” bergogliano – interrompere di fatto attivamente la loro esistenza? L’attuale Papa infatti sottolinea che la sospensione delle cure è da riservarsi a «casi ben determinati» e non certo una regola – nuova – applicabile indistintamente. E poi perché allora l’eutanasia rimarrebbe «sempre completamente illecita in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte», datosi che non è ravvisabile alcuna sostanziale differenza etico-deontologica – diversamente da quella giuridica che appare evidente – tra l’interrompere una vita che potrebbe comunque proseguire con la sospensione di una terapia invece che con la somministrazione di una sostanza letale, sempre se con il consenso della persona malata ? Forse c’è ancora qualcuno disposto a credere all’esistenza del concetto di morte naturale? Ormai attribuibile solo ad una ipotetica volontà trascendente a prescindere dall’azione della medicina che è invece il risultato di una applicazione dell’intelletto dell’uomo.
A complicare oggettivamente l’interpretazione delle parole papali – ma a confermare i dubbi di questo modesto cultore della materia – intervengono quelle perentorie di Monsignor Paglia, Presidente della Pontificia Accademia della Vita: «È rilevante che spetti al medico decidere ma sempre in stretta relazione con il paziente… Insomma, possono terminare le cure ma mai la cura. Questo ha detto Papa Francesco».
Mario Riccio
Consulta di Bioetica