«Che cos’è lo spaziotempo? Questo libro vi ha offerto la pillola rossa. Lo spaziotempo è la vostra realtà virtuale, un casco che vi costruite da soli. Gli oggetti che vedete sono vostre invenzioni. Li create con uno sguardo e li distruggete con un battito di ciglia. Indossate questo casco da quando siete nati. Cosa succede se lo togliete?»
Pillola azzurra o pillola rossa? La cernita è ormai nota: da un lato, il mantenimento dello status quo, dall’altro, la possibilità di scostare il “velo di Maya” e scoprire la verità. Valicando le apparenze e le le false supposizioni insite nella nostra mente.
E se anche noi avessimo l’occasione di eradicare tutte le convinzioni che possediamo a proposito della realtà circostante? Si tratta della sfida concettuale proposta da Donald Hoffman ne “L’illusione della realtà. Come l’evoluzione ci inganna sul mondo che vediamo”, il “saggio sulla percezione” edito da Bollati Boringhieri e tradotto da Francesca Pe’.
La tesi avanzata dal docente di Scienze cognitive dell’Università della California, Irving, appare tanto semplice quanto controintuitiva: l’evoluzione ha forgiato i nostri sensi affinché questi celino la verità e ci consentano, così, di sopravvivere e allevare la nostra prole. Homo sapiens sarebbe, quindi, stato dotato, mediante il lavorio incessante della selezione naturale, di organi sensoriali volti a captare non la realtà oggettiva, bensì i benefici adattativi (la fitness) maggiormente congrui alla nostra possibilità di riprodurci.
Per delucidarne i meccanismi, Hoffman ricorre alla sua cosiddetta “Teoria dell’interfaccia percettiva” (TIP). Proprio come il desktop di un computer, infatti, lo studioso ipotizza che il nostro sistema percettivo possa essere considerato alla stregua di una “interfaccia” modellata dall’incedere dell’evoluzione. Come in qualsiasi schermo, anche tale interfaccia risulta costituita da “icone”, ossia simboli in grado di comprimere la molteplicità di informazioni che li caratterizzano. Le icone del nostro sistema percettivo sarebbero, così, gli “oggetti”, immersi in un desktop che, nella nostra “realtà”, prende il nome di “spaziotempo”.
Di qui, ne consegue che «la percezione non serve a conoscere la verità», bensì a garantire la sussistenza di noi stessi e della nostra progenie. Perciò, «i geni vincenti […] codificano un’interfaccia che nasconde la verità sulla realtà oggettiva, fornendoci delle icone – oggetti fisici dotati di colori, consistenze, forme, movimenti e odori – che ci permettono di manipolare quella realtà invisibile nei modi necessari a sopravvivere e riprodurci». Per tale motivo, è illusorio credere che i nostri sensi percepiscano la «realtà così com’è», dal momento che essi si sono sviluppati al solo scopo di rilevare i benefici adattativi utili alla permanenza della specie.
Sorge, però, un dubbio. Se gli oggetti con cui veniamo in contatto sono dei meri simboli e sintetizzano una complessità che non corrisponde a una realtà oggettiva, qual è il loro statuto quando non li osserviamo? La risposta deriva dal vescovo e filosofo settecentesco George Berkeley: “esse est percipi” (“essere è essere percepiti”). Secondo la TIP, infatti, gli oggetti non costituiscono entità indipendenti, ma “vivono” quando esperiti, in quanto agglomerati di dati costruiti attraverso il nostro stesso porci in rapporto con essi. «Se guardate e vedete un cucchiaio, allora c’è un cucchiaio. Non appena distogliete lo sguardo, il cucchiaio cessa di esistere. Qualcosa continua a esistere, ma non è un cucchiaio e non si trova nello spazio e nel tempo. Il cucchiaio è una struttura di dati che create voi quando interagite con quel qualcosa. È la vostra descrizione dei benefici adattativi e di come ottenerli».
Ma allora perché tutti noi facciamo esperienza dei medesimi oggetti? Anche in questo caso, ad accennare la soluzione è un altro esponente della filosofia occidentale, Kant: spazio e tempo, infatti, sarebbero semplicemente il “formato” della nostra interfaccia, risultato di un cammino evolutivo peculiare ed esclusivo di Homo sapiens. Ogni essere vivente, appunto, esperisce in maniera differente ciò che lo circonda, e, in base al teorema “Fitness-Batte-Verità” (FBV) – elaborato da Hoffman e dimostrato da Chetan Prakash –, persegue risorse in grado di nutrire la sua fitness, e non atte a captare la “verità” in sé. Dal punto di vista evoluzionistico è evidente, dal momento che «i benefici adattativi non coincidono con la realtà oggettiva e, per un dato elemento di realtà, possono variare moltissimo da una creatura all’altra e da un momento all’altro».
In base a tale ragionamento, dunque, ne deriva che «la selezione naturale plasma le percezioni in una maniera tutta personale, per dire a me le conseguenze per me delle mie azioni sul mondo»: ciò che consente di aumentare la fitness di un individuo può non corrispondere al risultato delle azioni e delle percezioni di un altro, e può, di conseguenza, non apportare i medesimi benefici.
Benefici che, inoltre, provengono anche dall’incessante lavoro di livellamento e correzione degli errori operato da Homo sapiens. Lo spaziotempo e gli oggetti percepiti, infatti, sono mere strutture di dati sottoposte all’algoritmo di compressione sviluppato dall’evoluzione, «un codice usato dai nostri sensi per riferire la fitness» e, ancora una volta, «guidare l’esplorazione e l’azione adattiva». Un espediente che, come dimostra Hoffman, può essere sapientemente impiegato anche nelle campagne di marketing, mediante l’uso sagace di forme, colori, consistenze e “attenzioni pianificate”.
Permane, però, un ultimo quesito: che cos’è il mondo oggettivo? Per fornirne una spiegazione, lo studioso propone le teorie elaborate dal “realismo cosciente”. La realtà sarebbe, appunto, composta da un agglomerato di “agenti coscienti” capaci di percepire, decidere e agire, in costante relazione tra loro e in grado di influenzarsi vicendevolmente. Perciò è «la coscienza, non lo spaziotempo con i suoi oggetti, a costituire la realtà fondamentale, e il modo più adeguato per descriverla è una rete di agenti coscienti», i quali si uniscono a creare «agenti coscienti sempre più complessi dotati di un potenziale infinito di esperienze, decisioni e azioni».
La nostra realtà, quindi, non risulta estranea a noi stessi, ma abbraccia il nostro mondo sensoriale, cessando di esistere nel momento in cui fuoriesce da tale interfaccia. Si instaurano, così, le basi di una “ontologia” inedita e rivoluzionaria, in nuce nella sua essenza ma già propensa a sovvertire la linearità del nostro pensiero. Nel corso della trattazione, infatti, la tesi avanzata da Hoffman appare spesso ostica e controintuitiva, ma viene centellinata e offerta all’attenzione del lettore mediante un registro divulgativo coinvolgente e una successione di idee, esempi ed esperimenti mentali – dalla teoria dei giochi alla filosofia, fino alle più complesse spiegazioni fisiche e scientifiche – che rendono le argomentazioni fruibili anche ai neofiti della materia. O, perlomeno, a tutti coloro che si sentono pronti a superare i confini dello scibile. Pillola rossa?