Suicidio medicalmente assistito, ecco perchè la legge della Toscana è legittima
10 MAR – Gentile Direttore,
l’11 febbraio 2025, la Toscana ha approvato – prima in Italia – una Legge regionale per regolare l’accesso al suicidio medicalmente assistito al fine di dare certezza e precisione a quanto stabilito dalla Corte costituzionale. Le procedure della nuova legge sono state contestate, e nei prossimi giorni arriverà un Parere dirimente al riguardo.
In attesa di tale passo, e anche per ravvivare il dibattito sul tema, l’Associazione Luca Coscioni ha convocato un’Assemblea aperta al pubblico per il 12 marzo 2025, presso l’Auditorium del Consiglio regionale della Toscana (via Camillo Cavour 4, Firenze) dalle 17:00 alle 19:30.
Volendo anch’io dare nuovo contributo alla riflessione sul suicidio medicalmente assistito, e in particolare a favore della legittimità delle Leggi regionali, senza entrare nelle tecnicalità procedurali cerco qui di proporre due considerazioni di carattere etico e filosofico sul tema.
La prima considerazione riguarda ciò che ha davvero stabilito la Corte costituzionale circa il suicidio assistito. I critici della legge regionale osservano che la Corte non avrebbe affatto stabilito un «diritto» al riguardo, ma avrebbe solo depenalizzato la pratica in un’area ben circoscritta (dalle note quattro condizioni), al di fuori delle quali l’assistenza al suicidio resta severamente punita. Non sarebbe quindi stato intaccato l’orientamento generale dell’ordinamento giuridico, che resterebbe indirizzato all’indisponibilità della vita: aspetto confermato dal fatto che il sentire comune continuerebbe a percepire la nuova pratica del suicidio assistito come deprecabile. Non avendo la Corte affermato alcun «diritto» al riguardo e restando il divieto penale, solo una legge nazionale può regolare la situazione.
Non intendo proporre qui l’interpretazione “autentica” delle Sentenze della Corte costituzionale, sia perché non ho le competenze sia perché questa non è la sede. Posso però rilevare che la Corte afferma tesi diverse con argomenti e toni di vario tipo. Certamente nelle Sentenze ci sono passaggi in cui l’assistenza al suicidio è solo depenalizzata, ma ce ne sono altri in cui si va ben oltre. Nella n. 242/19 si afferma che come la legge Lenzi 219/17 ascrive il «diritto» di giungere a morte con la sospensione dei trattamenti, così gli artt. 3, 13 e 32 della Carta garantiscono che “la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie”, non possa essere “ingiustificatamente nonché irragionevolmente” limitata all’idea che ci sia “in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita”. Si rileva che ci sono modalità diverse di morire (quella naturale con la sospensione dei trattamenti e quella assistita col suicidio, ma anche altre), e si afferma che è ingiustificato e irragionevole imporre che la morte avvenga con “un’unica modalità”, perché tale restrizione viola la libertà di autodeterminazione del malato circa la propria salute: tesi che pare implicare il «diritto» di scegliere modalità diverse da quella naturale con cui morire.
Non so dire se questo passo basti per sostenere il «diritto» di accedere al suicidio assistito, né quanto ciò possa cambiare l’orientamento generale dell’ordinamento (dal presunto favor vitae al favor libertatis). L’avere però permesso l’assistenza al suicidio anche solo in qualche caso ha contribuito a modificare il sentire comune verso tale pratica. Prima la morte volontaria era vista come qualcosa di esecrabile, mentre ora è un’opzione ragionevole e plausibile. Chi come dj Fabo o Mario il marchigiano ha scelto il suicidio viene ricordato con rispetto e anche con una certa ammirazione, e i medici che hanno prestato l’assistenza (Mario Riccio, Paolo Malacarne, etc.) sono chiamati a parlare nelle Università e nei Centri culturali dove ricevono apprezzamento e sostegno.
Si può riconoscere che la Corte non ha espresso una posizione netta e precisa e che restino punti da chiarire, ma l’aver riaffermato senza indugi la centralità del consenso informato e della libertà di autodeterminazione fa pensare che nei casi previsti l’assistenza al suicidio sia non solo depenalizzata ma sia un vero e proprio «diritto». Di qui l’idea che le regole di accesso a tale «diritto» possano anche essere stabilite da Leggi regionali.
L’altra considerazione etico-filosofica che intendo proporre riguarda invece la competenza delle Regioni di fare Leggi che regolano l’accesso al suicidio assistito nei limiti di quanto già stabilito dalla Corte costituzionale. Si obietta che le Regioni hanno competenza solo per la tutela della salute, e non circa la vita. Quest’ultimo sarebbe tema di competenza esclusiva del Parlamento nazionale che, in base al principio di uguaglianza, fissa norme valide per tutti i cittadini a tutela del bene-vita e del diritto alla vita.
È vero che siamo soliti classificare “vita” e “salute” in caselle concettuali diverse, come concetti o beni distinti e separati. Questo capita perché nelle situazioni normali dell’esistenza il concetto di vita è più ampio di quello di salute. Una “vita” è formata da varie parti: c’è la componente sanitaria (salute), quella relazionale, quella affettiva, economica, spirituale, e via dicendo. Il bene-vita è il risultato dell’integrazione dei vari componenti, e è tutelato dal diritto alla vita. In questo senso il bene-vita è più ampio del bene-salute, che ne è solo una parte: aspetto che emerge quando rileviamo che una persona è in pessime condizioni economiche e affettive, ma in eccellenti condizioni di salute, o viceversa ha una salute pessima, ma una florida situazione economica e affetti solidi. La “qualità della vita” è il frutto del bilancio complessivo delle varie componenti.
Quanto detto conferma l’idea che nelle situazioni normali dell’esistenza è corretto distinguere tra vita e salute, e che il bene-vita è diverso dal bene-salute. Tuttavia, quando si tratta di stabilire le norme circa l’accesso al suicidio assistito non siamo più nelle situazioni normali dell’esistenza, perché il contesto è quello del fine-vita. In questa nuova situazione il quadro concettuale cambia e deve cambiare, perché le altre varie componenti del bene-vita (economiche, relazionali, affettive, etc.) sono come “messe tra parentesi” o comunque considerate a parte e diventano irrilevanti perché sono quelle che si ha cura di verificare che non influenzino la scelta, così che l’attenzione è tutta concentrata sulla sola salute.
In questo nuovo quadro concettuale tipico della situazione di fine-vita in cui in pratica si considera solo la componente sanitaria “salute” e “vita” non sono più concetti distinti, ma coincidono perché “vita” equivale a essere in salute (buona o cattiva) e “morte” equivale alla disgregazione della salute. In tale contesto la persona vive bene quando la salute è “buona”, cioè quando la persona sta bene e la sua salute può essere collocata nel quadrante positivo di un asse cartesiano come componente che arricchisce la sua “qualità della vita”. La persona vive male la salute è “cattiva”, cioè quando la persona sta male e soffre, per la sua salute cui va collocata nel quadrante negativo come componente che impoverisce la “qualità della vita”. Quando ciò capita, gli interventi sanitari sono tesi a “migliorare” la salute, e la medicina ha fatto progressi notevoli al riguardo. Quando tuttavia non si riesce più riportare la salute nel quadrante positivo, si crea la “condizione infernale”, cioè una situazione di “salute negativa” (o di “vita che non è vita”, come si dice) che è caratterizzata da permanente dolore e/o da mancanza di dignità che la rendono peggiore della morte (che è (condizione che non comporta sofferenze e si colloca sullo zero).
In altre parole, la salute può essere buona, cattiva o disgregarsi, e nelle situazioni di fine-vita la vita coincide con la salute, perché in tale contesto si vive (bene) quando la salute è buona; si vive male quando la salute è cattiva; e si muore quando la salute si disgrega.
Poiché la Corte costituzionale ha stabilito che “la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie” (cioè nella tutela della salute) prevede che si possa scegliere tra varie modalità per congedarsi dalla vita, e poiché alle Regioni spetta il compito di fare leggi circa la tutela della salute, legittime sono le leggi regionali atte a regolare l’accesso al suicidio assistito nei limiti di quanto già stabilito dalla Corte costituzionale perché a ben vedere tali leggi riguardano il bene-salute.
Maurizio Mori
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica