Legge sulla morte medicalmente assistita. La posizione del CEF

Il 9 maggio, nel corso del Consiglio dei Ministri, è stata decisa la presentazione del ricorso per l’impugnazione davanti alla Corte costituzionale, della legge regionale toscana sul fine vita“Modalità organizzative per l’attuazione delle Sentenze della Corte costituzionale n. 242/2019 e n. 135/2024”, \approvata l’11 febbraio e promulgata il 14 marzo 2025.

Dal punto di vista formale, l’impugnazione per conflitto di attribuzione da parte del Governo ha rappresentato un’iniziativa di cui la stessa legge regionale impugnata  aveva contemplato la possibilità e stabilito la tempistica, fissandone il termine entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore.

Dal punto di vista sostanziale, invece, ha dato luogo all’ennesimo tentativo di frapporre ostacoli al percorso -virtuosamente avviato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019- che già da tempo avrebbe dovuto condurre a  una disciplina dell’aiuto a morire in grado di garantire a tutti gli individui di poter morire con dignità, perché liberati dalla sofferenza e rispettati  nelle loro volontà.

Si è trattato di una decisione prevedibile, ma sulla quale ha pesato il pressing dell’Associazione pro vita e famiglia.  Il 7 maggio questa ha, infatti, consegnato alla Presidente del Consiglio e al Ministro per i rapporti con il Parlamento le firme raccolte con la petizione “No alla morte di Stato. Firma affinché il Governo si opponga alla legge della Toscana sul suicidio assistito”, aggiungendo, così, un ulteriore capitolo alla campagna irriducibilmente condotta, negli ultimi mesi, a livello mediatico,  non tanto con l’intento  di rivendicare la competenza del Legislatore nazionale sul tema della morte  medicalmente assistita, quanto, piuttosto, di ostacolare, differendone il raggiungimento sine die, la disciplina legislativa della materia,  ripetutamente sollecitata dalla Corte costituzionale, oltre che auspicata da larga parte della popolazione italiana.

In questo scenario, il Comitato per l’etica di fine vita (CEF)  ritiene doveroso far sentire la propria voce per porre in guardia da  distorsioni disinformative e strumentalizzazioni ideologiche, di cui va scongiurato il possibile impatto negativo sui diritti e lo svolgersi della vita degli individui in condizioni di estrema e insostenibile sofferenza.

In primo luogo, va sottolineata l’infondatezza dell’idea che il favore per la morte medicalmente assistita (e la richiesta della sua legalizzazione) faccia tutt’uno con la svalutazione delle esistenze  condotte in condizioni di estrema vulnerabilità e ritenute, in quanto tali, non meritevoli vissute, o possa, addirittura,  legittimarne il sacrificio, a prescindere dalla volontà dei soggetti interessati, presentando questa  come la strada preferibile a quella dell’impegno profuso, nell’ottica della solidarietà, per sollevarli dalla sofferenza.

E va, in secondo luogo, denunciata la pretestuosità dell’idea che la possibilità di far ricorso all’approccio di cura proprio delle cure palliative rappresenti la strada da percorrere obbligatoriamente  per sollevare gli individui da ogni condizione di sofferenza, privando così il ricorso alla morte medicalmente assistita di giustificazione sul piano clinico e sul piano etico.

Coloro che ripropongono tali argomenti  non prestano nessuna attenzione  né al dibattito bioetico e biogiuridico sul fine vita in atto anche nel nostro Paese da diversi anni a questa parte, né ai presupposti  fattuali e valoriali  sulla base dei quali la Corte costituzionale ha delineato il perimetro della disciplina legislativa della morte medicalmente assistita, di cui ha richiesto l’attuazione al Parlamento.

Per un verso, la Corte costituzionale ha, infatti, tenuto ferma  la contestualizzazione della liceità dell’aiuto a morire agli scenari  di fine vita profondamente trasformati dalla moderna medicina tecnologica, alle situazioni -come si legge nella sentenza -“inimmaginabili”  al momento 2

dell’entrata in vigore del codice penale italiano (1930),  proprie dei soggetti che la medicina è divenuta capace di strappare alla morte, senza tuttavia poter restituire loro sufficienza delle situazioni vitali.

Per altro verso, ha riconosciuto che, in un quadro costituzionale improntato ai valori della libertà personale e, al tempo stesso, della solidarietà, il diritto è chiamato a garantire che ogni individuo, esposto a sofferenze che la malattia inguaribile,  o la condizione irrimediabilmente invalidante in cui versa,  rendono per lui insostenibili, possa concludere la propria esistenza con quella dignità, di cui si parla solo in modo retorico,  se non ci si preoccupa  di preservare le persone dalla mortificazione che accompagna quotidianamente la protrazione  di una sopravvivenza da loro non più voluta.

In questa prospettiva, la morte medicalmente assistita, e specificamente l’assistenza nel suicidio, rigorosamente condizionata alla volontà di soggetti capaci di scelte libere e consapevoli, si presenta come un’ulteriore strada  offerta agli individui per le cui sofferenze intollerabili le risposte, da loro stessi valutate come adeguate, non possono essere quelle che la legge ha già  contemplato e disciplinato nella legge n. 219/2017, vale a dire la non attivazione e la sospensione dei trattamenti, rifiutati dal malato  o clinicamente non appropriati, e la messa in atto dell’ultima frontiera delle cure palliative, rappresentata dalla sedazione palliativa profonda.

Nulla di più lontano dalla sottovalutazione delle vite condotte nelle condizioni  di estrema vulnerabilità, alle quali si intende, per contro,  riservare la più alta considerazione, rifuggendo dalla tentazione, e dalla presunzione, che spetti ad altri, e non ai diretti interessati,  valutare  la quantità e la tollerabilità delle sofferenze, così come l’idoneità delle modalità da  porre in atto  per alleviarle.

E nulla di più lontano, al tempo stesso, dall’insufficiente ruolo da riconoscere alle cure palliative, di cui il Comitato per l’etica di fine vita ha costantemente auspicato e richiesto la più diffusa e appropriata attuazione  su tutto il territorio nazionale,  ponendo, tuttavia, in guardia dall’illusione e dalla mistificazione dell’“onnipotenza palliativa”, affidata alla tesi che gli approcci terapeutici, unitamente al supporto psicologico e spirituale, in cui le cure palliative si sostanziano,  possano, sempre e comunque, offrire la risposta adeguata alla sofferenza psicofisica dei malati affetti da patologie a prognosi infausta e/o in situazioni invalidanti alle quali non v’è rimedio.

Si tratta di una rappresentazione delle cure palliative pretenziosa e totalizzante, che non trova conferme sul piano fattuale, dal momento che, nonostante la migliore offerta ed erogazione di cure palliative (peraltro ancora ben lontana dal poter essere sempre realizzata nel nostro Paese), vi sono situazioni di perdurante sofferenza che le persone malate valutano come insostenibile, anche in presenza di un sufficiente controllo della sintomatologia dolorosa. È, infatti,il venir meno di ogni possibilità progettuale, assai spesso in contesti di ingravescente deprivazione motoria, sensoriale e relazionale, a far apparire ai malati la prosecuzione della vita come un’insostenibile prigionia, da cui non bastano le cure palliative a liberarli. Non va, d’altra parte, dimenticato che, non diversamente da qualunque altro intervento o trattamento, le cure palliative richiedono, per poter essere attuate, il consenso del paziente e che, se da questi consapevolmente rifiutate, non fanno venir meno quel dovere di “adoperarsi per alleviarne le sofferenze”, affermando la cui inderogabilità, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico, la legge n. 219/2017 ha prefigurato, all’art, 2, le linee di un paradigma assistenziale, nel quale il mantenimento della sopravvivenza, in qualunque condizione e ad ogni costo, ha lasciato il posto alla risposta alla sofferenza come dovere categorico che gli operatori sanitari sono chiamati ad adempiere.

La sentenza   n. 242/2019 ha affermato l’importanza dell’offerta ai malati di un percorso di cure palliative, ma non ne ha prospettato l’obbligatorietà o l’alternatività rispetto al suicidio assistito. D’altra parte, ha dato rilievo, nelle recente sentenza n. 66/2025,  al ruolo delle strutture del Servizio 3

sanitario nazionale, oltre che dei Comitati etici territoriali, nell’accertamento dei requisiti e, si può aggiungere, per l’apprestamento delle garanzie,  per l’accesso dei malati all’assistenza nel suicidio fornita da un medico che, pur senza averne l’obbligo, abbia dato la sua disponibilità.

Si sono, così, già delineati i presupposti per allargare la platea degli individui sofferenti per i quali si profila la possibilità di sottrarsi a una sopravvivenza avvertita come lesiva della loro dignità.

Ci sono però ancora dei passi che è necessario compiere perché  quella possibilità si traduca in un diritto, di cui i malati possano avvalersi senza incontrare ostacoli e ingiustificate disparità di trattamento.

E’ indispensabile che siano definiti con chiarezza i tempi e le modalità di attuazione delle procedure finalizzate all’assistenza medica nel morire, come, peraltro, hanno inteso fare la Legge regionale toscana, impugnata dal Governo, e, seguendo una strada meno suscettibile di incontrare obiezioni sul piano costituzionalistico, linee guida di carattere tecnico-amministrativo  messe a punto in alcune Regioni.

Non meno rilevante è, però, anche superare le incertezze, e i possibili effetti indebitamente limitanti, derivanti dall’inserimento, tra criteri per l’accoglimento della richiesta di aiuto a morire, del requisito della dipendenza  del malato da trattamenti di sostegno vitale. Requisito, questo, diffusamente valutato come fuorviante e potenzialmente discriminatorio,  di cui era auspicabile l’eliminazione, ma che la Corte costituzionale  ha tenuto fermo nelle sentenze n.135/2024 e n. 66/2025,  pur adottandone l’interpretazione allargata secondo la quale, parlando di trattamenti di sostegno vitale, ci si riferisce all’ampia gamma di procedure, anche solo prospettabili e non già messe in atto, necessarie alla protrazione della sopravvivenza (comprese le manovre di evacuazione, l’inserimento di cateteri, l’aspirazione del muco del vie bronchiali, per limitarsi agli esempi fatti dalla Consulta stessa),.

Di non minore rilievo appare, inoltre, l’abbandono della  preclusione nei confronti dell’eutanasia, di cui si enfatizza l’eterogeneità/discontinuità rispetto al suicidio assistito.

Verso una disciplina dell’aiuto a morire comprensiva dell’eutanasia, oltre che del suicidio assistito, fa propendere il rilievo che in entrambe le procedure il medico è investito   di un ruolo di “assistenza” determinante, con la differenza che, nel caso dell’eutanasia, si pone in esserela modalità di assistenza  appropriata alle situazioni  in cui il malato non è in grado di compiere alcun atto  e, in quanto tale, più compiuta.  E fa propendere il principio di eguaglianza sancito all’art. 3 della nostra Costituzione, che, nel delegittimare disuguali trattamenti riservati ai cittadini, e a tutti gli individui, sulla base delle “condizioni personali”, tra le quali sono in primo piano le condizioni di salute, offre la più forte ragione giuridica, oltre che etica, per garantire il diritto a una morte dignitosa anche a coloro che, proprio per le condizioni in cui versano, anche dopo la sentenza n. 242/2019 non potrebbero vederlo riconosciuto.

E’ questo l’orientamento adottato dal Disegnodi legge che solo di pochi giorni fa’ (il 27 maggio scorso)  ha ottenuto in Francia l’approvazione, a larga maggioranza,  dell’Assemblea Nazionale e che, se sarà approvata  anche dal Senato, doterà un altro Paese culturalmente oltre che geograficamente vicino al nostro, dopo la Spagna e il Portogallo, di unabuona legge in materia di morte medicalmente assistita.

Nonostante le perduranti, e non più scusabili remore della politica italiana, non si deve  desistere non solo dall’auspicare, ma dal chiedere con forza che il Legislatore imbocchi risolutamente la stessa direzione e consegua analogo risultato nel nostro Paese, facendo tesoro degli esempi virtuosi che vengono dall’esterno e, soprattutto, rispondendo alle aspettative della società civile.

Per il CEF
la Presidente, Prof.ssa Patrizia Borsellino