Comunicato Stampa: CORTE COSTITUZIONALE: GRANDE E STORICA SENTENZA!

CORTE COSTITUZIONALE: GRANDE E STORICA SENTENZA! CONSENTE IL SUICIDIO MEDICALMENTE ASSISTITO COME SVILUPPO DEL DISCORSO INIZIATO CON WELBY, ELUANA    E LA L. 219/17 E PONE LE BASI PER UN ULTERIORI ALLARGAMENTI DELLA LIBERTÀ Ieri pomeriggio è uscito il testo integrale della Sentenza n. 242/19 della Corte Costituzionale sul caso Cappato: la pronuncia riprende i temi già trattati  nell’ordinanza n. 207 del 24 settembre 2018, ma li precisa e anche li colloca in una prospettiva più ampia. Il risultato è che la Sentenza è destinata a diventare storica sia per l’importanza delle questioni trattate sia per la profondità delle analisi. La Corte riafferma la tesi secondo cui “l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione”. Precisato questo, la Corte viene a individuare “una circoscritta area in cui l’incriminazione non è conforme a Costituzione. Si tratta dei casi nei quali l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, e che può autonomamente maturare il proposito di farsi aiutare a morire anticipando la propria morte. La Corte è stata molto cauta nella valutazioni delle diverse fattispecie e ha rispettato rigorosamente i termini del problema posto, senza andare oltre il mandato assegnatole: ha, comunque, compiuto il passo richiesto per scollinare e per passare così al nuovo paradigma circa la disponibilità della vita e la visione medica. La Corte riconosce alla L. 219/17 il merito di aver consentito al paziente, nelle condizioni sopra indicate, di “decidere di lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua […] Decisione che il medico è tenuto a rispettare”. Tuttavia, la Corte rileva che “la legge non consente al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti atti a determinarne la morte. Il paziente è così costretto, per congedarsi dalla vita, a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Ciò finisce per limitare irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti, compresi quelli finalizzati a liberarlo dalle sofferenze, garantita dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione” (comunicato). Basta questa dichiarazione circa la limitazione irragionevole della libertà di autodeterminazione del malato per cambiare il quadro della medicina e per sancire il tramonto dell’articolo 17 del Codice di deontologia medica (2014), che vieta gli atti finalizzati alla morte (1): gli Ordini dei medici dovranno rivedere quel punto, che è fondamentale anche perché riguarda tutti. Inoltre, la Corte sancisce un punto di non ritorno del dibattito quando chiarisce il principio informatore della sua decisione: “Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore [ porre fine alla propria esistenza] debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.” Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri. Non possiamo che sottolineare e condividere pienamente quanto poi viene affermato “La conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita” (Sentenza, 2.3). Questo ragionamento segna un punto di “non ritorno” perché si basa sul rifiuto (largamente condiviso) dell’accanimento terapeutico o accanimento clinico, criterio che viene così esteso anche a altre forme di congedo dalla vita. È sulla scorta di questo criterio che il Legislatore dovrà lavorare per fare una nuova legge che precisi gli aspetti specifici del fine-vita, i cui contorni sono stati chiaramente ribaditi nella conclusione della Sentenza: la pratica dovrà essere  eseguita all’interno del  SSN , da personale sanitario pubblico, e dovrà avere il parere preventivo consultivo del Comitato etico competente territorialmente . “Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Le ultime parole contengono una indicazione confusa riguardo al Comitato etico competente: il “Comitato etico territorialmente competente” oggi esistente è quello per la “sperimentazione clinica”, che non ha titolo né competenza di dare suddetti pareri. Questi sono di spettanza del Comitato etico per la consulenza etica alla pratica clinica, organismi che, purtroppo, con la riforma Balduzzi sul tema sono drasticamente diminuiti. I Comitati per la consulenza etica alla pratica clinica, che sono gli organismi pubblici indipendenti che devono prendere in carico la richiesta del paziente, verificarne la genuinità e le condizioni previste dalla Sentenza, sono pochi e presenti in modo difforme nelle varie regioni. Bisognerà correggere questa carenza e precisare l’indicazione in tal senso della Corte, ma tutto ciò, comunque, non modifica affatto né l’impianto né la direzione della Sentenza. Maurizio Mori Presidente Torino, 23 novembre 2019 (1) “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte” (art. 17, CDM 2014).   Sentenza  22 novembre 2019, n. 242 della Corte costituzionale