LA GESTAZIONE PER ALTRI È FORMA DI RIPRODUZIONE ASSISTITA ETICAMENTE BUONA, CHE VA REGOLATA CON OCULATEZZA:

Torino, 20 marzo 2023 COMUNICATO STAMPA n. 2/2023 LA GESTAZIONE PER ALTRI È FORMA DI RIPRODUZIONE ASSISTITA ETICAMENTE BUONA, CHE VA REGOLATA CON OCULATEZZA: BASTA CON ARCAICI RICATTI SULLA PELLE DI GENITORI E BAMBINI! L’IDEA DEL DIVIETO UNIVERSALE È LA SOLITA BOUTADE ANALOGA A CHI VOLEVA IL DIVIETO UNIVERSALE DELLA FECONDAZIONE ASSISTITA, E PRIMA ANCORA DELLA LIBERTÀ DELLE DONNE Con la nota attenzione per i diritti di tutte le persone, l’Unione Europea sta proponendo una norma valida in tutt’Europa che garantisca a tutti i nati l’uguaglianza di status: a ciascun nato nell’Unione devono essere garantiti eguali diritti a prescindere dalla modalità di nascita, e basta con le discriminazioni tra figli legittimi, illegittimi, adulterini, naturali, e altre sciocchezze simili!

Aborto e legge 194, la bioeticista Caterina Botti: “Via obiezione di coscienza. Politiche nataliste sulla pelle delle donne”

La violenza contro le donne è un pozzo pesto senza fondo. Quel “buco nero” è tappezzato di libertà monche come il diritto all’aborto, sancito in Italia dalla legge 194 del 1978, ma minato dall’obiezione di coscienza. Ne abbiamo discusso con Caterina Botti, docente di Filosofia morale all’Università La Sapienza di Roma. L’articolo di Giuliana Vendola su Quotidiano Italiano

Comunicato stampa: ABORTO LIBERO E GARANTITO!

Torino, 24 giugno 2022 COMUNICATO STAMPA 5-2022 RIMBOCCHIAMOCI LE MANICHE PER FAVORIRE UNA NUOVA FIORITURA DEI DIRITTI CIVILI, A PARTIRE DA QUELLI RIPRODUTTIVI ASSICURANDO IN PRIMIS L’ABORTO LIBERO E GARANTITO! La nuova sentenza Dobbs (2022) della Corte Suprema sull’aborto è l’analogo del Congresso di Vienna (1895): la neo-restaurazione bioetica voluta dal populismo reazionario è contro la storia e non ha futuro! (Anche se approfitta della “distrazione” progressista).

Comunicato stampa: L’EUTANASIA È UNA FORMA DI “CURA”

Torino, 24 febbraio 2022 COMUNICATO STAMPA 3-2022 L’EUTANASIA È UNA FORMA DI “CURA”  PERCHÉ TOGLIE IL PAZIENTE DALLA CONDIZIONE INFERNALE. UNA RISPOSTA AL CENTRO DI BIOETICA LUCANO   In un’ampia intervista al giornale “La Nuova del Sud” il Direttore del Centro di Bioetica Lucano Rocco Gentile ha dichiarato che l’eutanasia è un atto che annienta la cura, quindi ha approvato la bocciatura del Referendum.  Senza entrare nel merito della decisione della Corte Costituzionale sul Referendum, che solleva problemi diversi, si vuole qui criticare la tesi centrale sostenuta da Rocco Gentile, ossia che l’eutanasia sia una richiesta di morte sic et simpliciter. Questa caratterizzazione dell’eutanasia è ingenerosa e inadeguata, perché ignora la premessa fondamentale della richiesta eutanasica, ossia lo stato di irreversibile sofferenza esistenziale che la genera. Chi chiede l’accesso alla morte volontaria medicalmente assistita non lo fa né per mero capriccio né come esito di una temporanea e passeggera difficoltà psicologica, ma perché è afflitto da estrema, disperata e ineluttabile sofferenza. È questa ciò che muove il paziente a chiedere l’eutanasia.  Omettere la grave e infernale sofferenza che sta alla base della domanda eutanasica è capzioso e inquina un dibattito che, su questi temi tanto delicati, dovrebbe essere attento ed equanime. Dunque, se l’eutanasia viene richiesta da un paziente che versa in una condizione irreversibile di malattia, perseverare con il principio di cura a tutti costi significa rispettare il paziente oppure accanirsi sulla sua sofferenza? Chi sostiene la necessità di dover curare a tutti i costi e fino alla fine lo fa, spesso, sulla base di due convinzioni: la prima è che la vita sia sacra e pertanto indisponibile; la seconda è che la funzione di cura del medico debba prevalere sulla volontà del paziente. Ora, l’idea della sacralità e indisponibilità della vita deriva da un convincimento religioso, che è ben lontano dall’essere un principio universalmente condiviso. Vietare l’eutanasia sulla base di una convinzione religiosa e personale comporta un’ingiustizia ai danni di coloro che non condividono la medesima convinzione. Approvare l’eutanasia, viceversa, non significa imporne la pratica a chi la disapprova, bensì rispettare la volontà di quelle persone che non riescono più a sopportare il peso di una sofferenza che non conoscerà mai sollievo. In altri termini, vietare l’eutanasia riduce le libertà dei singoli; approvarla, invece, significa offrire una possibilità in più a coloro che avvertono l’insopprimibile necessità di porre fine a un dolore destinato a perpetuarsi. Questa posizione, tra l’altro, risulta essere conforme al dettato della sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, che recita: «Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.». In secondo ordine, ritenere la funzione di cura del medico prioritaria rispetto alla libertà di scelta del paziente è il frutto di una interpretazione arcaica, gerarchica e ampiamente superata della relazione medico-paziente, per cui il primo sarebbe depositario e custode della vita del secondo. Lo sforzo verso cui muove la medicina odierna è invece quello di stabilire una orizzontalità nel rapporto, per cui il medico risponde alla richiesta di cura del paziente, ma non la impone contro la sua volontà né vicaria le scelte di vita del paziente sulla base di convincimenti del tutto personali. Ecco, finché il dibattito sul fine-vita resterà ancorato a posizioni dogmatiche − che non tengono conto dell’evoluzione della relazione medico-paziente e del mutato contesto storico, dominato dal pluralismo morale − sarà difficile produrre importanti passi in avanti. L’auspicio, ad oggi, è che il Parlamento suturi il gap che lo distanzia dalla cosiddetta “vita reale” e colga la necessità, sempre più impellente, di legiferare a favore della morte medicalmente assistita per consentire a chi patisce una sofferenza grave e irreversibile di trovare pace, quando è impossibilitato a farlo da sé. Alessia Araneo Coordinatrice Sezione Lucana Maurizio Mori Presidente Consulta di Bioetica Onlus   Leggi anche: https://www.basnews.it/una-risposta-al-centro-di-bioetica-lucano/        

Comunicato Stampa: CORTE COSTITUZIONALE: GRANDE E STORICA SENTENZA!

CORTE COSTITUZIONALE: GRANDE E STORICA SENTENZA! CONSENTE IL SUICIDIO MEDICALMENTE ASSISTITO COME SVILUPPO DEL DISCORSO INIZIATO CON WELBY, ELUANA    E LA L. 219/17 E PONE LE BASI PER UN ULTERIORI ALLARGAMENTI DELLA LIBERTÀ Ieri pomeriggio è uscito il testo integrale della Sentenza n. 242/19 della Corte Costituzionale sul caso Cappato: la pronuncia riprende i temi già trattati  nell’ordinanza n. 207 del 24 settembre 2018, ma li precisa e anche li colloca in una prospettiva più ampia. Il risultato è che la Sentenza è destinata a diventare storica sia per l’importanza delle questioni trattate sia per la profondità delle analisi. La Corte riafferma la tesi secondo cui “l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione”. Precisato questo, la Corte viene a individuare “una circoscritta area in cui l’incriminazione non è conforme a Costituzione. Si tratta dei casi nei quali l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, e che può autonomamente maturare il proposito di farsi aiutare a morire anticipando la propria morte. La Corte è stata molto cauta nella valutazioni delle diverse fattispecie e ha rispettato rigorosamente i termini del problema posto, senza andare oltre il mandato assegnatole: ha, comunque, compiuto il passo richiesto per scollinare e per passare così al nuovo paradigma circa la disponibilità della vita e la visione medica. La Corte riconosce alla L. 219/17 il merito di aver consentito al paziente, nelle condizioni sopra indicate, di “decidere di lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua […] Decisione che il medico è tenuto a rispettare”. Tuttavia, la Corte rileva che “la legge non consente al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti atti a determinarne la morte. Il paziente è così costretto, per congedarsi dalla vita, a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Ciò finisce per limitare irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti, compresi quelli finalizzati a liberarlo dalle sofferenze, garantita dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione” (comunicato). Basta questa dichiarazione circa la limitazione irragionevole della libertà di autodeterminazione del malato per cambiare il quadro della medicina e per sancire il tramonto dell’articolo 17 del Codice di deontologia medica (2014), che vieta gli atti finalizzati alla morte (1): gli Ordini dei medici dovranno rivedere quel punto, che è fondamentale anche perché riguarda tutti. Inoltre, la Corte sancisce un punto di non ritorno del dibattito quando chiarisce il principio informatore della sua decisione: “Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore [ porre fine alla propria esistenza] debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.” Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri. Non possiamo che sottolineare e condividere pienamente quanto poi viene affermato “La conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita” (Sentenza, 2.3). Questo ragionamento segna un punto di “non ritorno” perché si basa sul rifiuto (largamente condiviso) dell’accanimento terapeutico o accanimento clinico, criterio che viene così esteso anche a altre forme di congedo dalla vita. È sulla scorta di questo criterio che il Legislatore dovrà lavorare per fare una nuova legge che precisi gli aspetti specifici del fine-vita, i cui contorni sono stati chiaramente ribaditi nella conclusione della Sentenza: la pratica dovrà essere  eseguita all’interno del  SSN , da personale sanitario pubblico, e dovrà avere il parere preventivo consultivo del Comitato etico competente territorialmente . “Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Le ultime parole contengono una indicazione confusa riguardo al Comitato etico competente: il “Comitato etico territorialmente competente” oggi esistente è quello per la “sperimentazione clinica”, che non ha titolo né competenza di dare suddetti pareri. Questi sono di spettanza del Comitato etico per la consulenza etica alla pratica clinica, organismi che, purtroppo, con la riforma Balduzzi sul tema sono drasticamente diminuiti. I Comitati per la consulenza etica alla pratica clinica, che sono gli organismi pubblici indipendenti che devono prendere in carico la richiesta del paziente, verificarne la genuinità e le condizioni previste dalla Sentenza, sono pochi e presenti in modo difforme nelle varie regioni. Bisognerà correggere questa carenza e precisare l’indicazione in tal senso della Corte, ma tutto ciò, comunque, non modifica affatto né l’impianto né la direzione della Sentenza. Maurizio Mori Presidente Torino, 23 novembre 2019 (1) “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte” (art. 17, CDM 2014).   Sentenza  22 novembre 2019, n. 242 della Corte costituzionale 

Comunicato stampa: autodeterminazione a fine vita e nuove prospettive di libertà

GRAZIE A DJ. FABO, A MARCO CAPPATO E AI GIUDICI MILANESI,
l’autodeterminazione alla fine della vita può aprire prospettive nuove di libertà.
I giudici milanesi hanno sospeso il giudizio di Marco Cappato; il rimandare la valutazione alla Corte Costituzionale è un successo di straordinaria importanza, che premia la tenacia di chi ha promosso l’azione, e che mostra la positiva attenzione della Magistratura sui diritti civili