I Big data: la “datizzazione” del mondo. – di Fiorello Casi

L’enorme sviluppo in questi ultimi anni, per molti versi inatteso, sia delle capacità di immagazzinamento, sia di quelle di elaborazione e connessione dei dati, in tutti i settori delle attività umane, ha determinato una inedita e inesplorata condizione. Tutto ciò è stato reso possibile dalla repentina crescita delle potenzialità che la tecnologia informatica (I.C.T) è riuscita a mettere in campo. L’abbinamento tra l’enorme diffusione di device informatici, quali smartphone, ipad, pc, GPS, unita allo sviluppo delle capacità di connessione di tali unità (Cloud computing) tra loro e tramite piattaforme software (Facebook, Linkedin, Chatbot, Twitter, WhatsApp, ecc.), offrono la possibilità di generare, in modo esponenziale, una massa di dati che non ha eguali nella storia dell’umanità.

Lo smartphone è addirittura considerato un pezzo importante dell’anatomia umana. Infatti è quello che dispone una storica sentenza della Corte suprema Usa che fa giurisprudenza sulla privacy degli americani. Non sono più consentite le perquisizioni dei telefonini, anche in caso di arresto. La polizia deve comunque richiedere un mandato giudiziario ad hoc, prima di ispezionarli. Proprio perché questi strumenti sono ormai parte di noi, un deposito di informazioni confidenziali, personali e riservate. La Corte conclude il suo dibattito in questo modo: “Perfino la parola telefonino ormai è inadeguata, fuorviante. Li potremmo chiamare videocamere, videoregistratori, agendine personali, calendari, librerie, diari, album, televisioni, mappe, giornali”. Nelle motivazioni scritte della sentenza si può ancora leggere: “Ormai il 90% degli americani ne possiede uno, contengono una trascrizione digitale di ogni aspetto delle loro vite, dai più banali ai più intimi, sono una parte pervasiva e onnipresente della vita quotidiana”. Una prolunga del nostro corpo, appunto. E come tali vanno tutelati dalle violazioni, anche durante un fermo di polizia. Fino a questo pronunciamento della Corte suprema, la routine dei poliziotti era diversa. I tribunali di ordine inferiore erano soliti giustificare ex post le perquisizioni dei cellulari, accettando per buona la tesi dei poliziotti: ispezionare il telefonino dell’arrestato può servire a prevenire un delitto in fieri, a proteggere la stessa sicurezza degli agenti, o a impedire la distruzione di una prova di reato. Il presidente della Corte, John Roberts, ammette che questa sentenza complicherà il lavoro delle forze dell’ordine, però afferma: ” I cellulari sono diventati uno strumento importante di coordinamento e comunicazione tra membri del crimine organizzato, possono fornire informazioni preziose per incriminare pericolosi delinquenti”. E tuttavia, conclude, “la privacy ha un costo”.

Il 28 luglio 2016 la sola Apple, ha reso noto di aver venduto il suo miliardesimo iPhone. Lo ha annunciato lo stesso C.E.O. (Chief Executive Officier), Tim Cook, nel corso di un incontro a Cupertino (CA) con il personale. Durante l’annuncio ha dichiarato: “L’iPhone è diventato uno dei prodotti più importanti, rivoluzionari e di successo nella storia”, e ha aggiunto: “È diventato più di un compagno inseparabile: è davvero una parte essenziale della nostra vita quotidiana e ci consente di fare molto di quel che facciamo durante la giornata”.

Il traguardo del miliardesimo iPhone, da parte della Apple, è stato raggiunto dopo poco più di nove anni dalla vendita del primo modello, il 29 giugno 2007. A confronto, commenta la stessa Apple, ci sono voluti 131 anni per avere sulle strade mondiali 1 miliardo di auto, 27 anni per vendere 1 miliardo di personal computer e la Terra ha raggiunto 1 miliardo di abitanti solo nel 1805. La Coca-Cola ha atteso 58 anni per vendere il primo miliardo di galloni della sua bevanda e i parchi a tema della Disney hanno festeggiato il miliardesimo visitatore dopo 49 anni dalla loro apertura.

L’aspetto peculiare di tutto ciò riguarda il fatto che solo da poco tempo i limiti riguardo la registrazione dei dati si sono ampliati a tal punto da consentirne una loro memorizzazione gigantesca. Telefonate, email, testi e foto pubblicati sui social network, parole chiave digitate sui motori di ricerca, dati sulle vendite al dettaglio e della grande distribuzione, previsioni atmosferiche; e la facilità con cui tutte queste attività possono essere compiute induce le persone ad approfittarne con modalità inedite rispetto al passato, quando queste operazioni non erano possibili con strumenti di generazioni precedenti. Oggi tutto ciò che lascia una traccia sociale e fisica viene registrato e memorizzato; tutti sono coinvolti, sia in modo, come si vedrà, consapevole, sia in modo trasparente, sia interagendo semplicemente con la società, nell’attività quotidiana; questo inesorabilmente porta ad interrogarsi su che cosa accadrà all’uomo nel momento in cui la struttura fondamentale della realtà sociale andrà, in modo sempre più crescente, a identificarsi con il Web.

Difatti il web, vale a dire la tecnologia, è la novità e il punto nodale; in controtendenza rispetto alle descrizioni novecentesche, che la intendono esclusivamente come fonte di alienazione, oggi il web può essere inteso come uno strumento di rivelazione. I nuovi media, essendo principalmente strumenti di registrazione, piuttosto che di semplice comunicazione (come la televisione e la radio) e con la capacità di influenzare, quando addirittura di mutare, le vite di miliardi di persone in pochi anni, hanno consentito altresì di verificare e comprendere le modificazioni delle strutture profonde dell’umano, mettendo in luce la sua disposizione primariamente passiva ad accogliere gli stimoli che provengono dalla realtà, così come l’origine della responsabilità umana e degli oggetti sociali. Le strutture tecniche in dotazione agli individui, infatti, responsabilizzano perché permettono di tenere traccia dell’interazione, della chiamata che arriva al soggetto, la quale non è più semplicemente comunicata, ma è registrata, configurandosi per questo motivo come un invito all’azione. Questa struttura iper-responsabilizzante dei nuovi media fa collassare ciò che con i vecchi media restava separato; il privato coincide col pubblico, così come il sociale col mediale. Se infatti l’essenza degli oggetti sociali è la registrazione, e se il web è proprio uno strumento di registrazione prima di essere mezzo di comunicazione, nello stesso momento in cui il medium produce una registrazione, dà vita a un nuovo oggetto sociale. È un aspetto fondamentale della rivoluzione digitale, forse tardo digitale, che sta cambiando la storia degli ultimi decenni. Ma non bisogna intendere la rete come un surrogato del mondo sociale o come un prototipo della società, bensì considerarla e osservarla sempre come la sua estensione.

Soprattutto oggi quando le nuove tecnologie, rispetto a ciò che abbiamo descritto circa il recente passato, hanno assunto caratteri specifici e modalità di utilizzo, prossime al nostro mondo sociale, fino a una sostanziale modificazione del tradizionale rapporto tra uomo e media nella realizzazione di una circolarità senza precedenti; la società contemporanea ha ridotto lo scarto tra essa e i sistemi mediatici e ciò, lo si è già detto, consiste nel fatto che ognuno è un utente fruitore e al tempo stesso produttore di contenuti mediali. Anche i nostri antenati, all’interno delle caverne, erano già allora, in qualche modo, sempre connessi agli altri e sottoposti alle sollecitazioni che provenivano dall’esterno, ma oggi la differenza sostanziale risiede nel cambiamento radicale della qualità, della quantità e della tipologia di connessione.

Per descrivere questa nuova era di cambiamento una parola che può esprimerne il senso e aiutarne la comprensione è quella di “datizzazione”; un processo in cui si è in grado di prendere informazioni su tutto ciò che esiste, incluse informazioni che fino a oggi erano lontane dal nostro orizzonte culturale; è la trasformazione in dati elaborabili di tutto ciò che facciamo, pensiamo, delle nostre preferenze e delle nostre avversioni, di tutte le relazioni che intratteniamo con individui privati, con le istituzioni e con le aziende. Questa condizione ci porta in un territorio assolutamente nuovo in cui si sono già costituite delle organizzazioni di raccolta globale di informazioni che potrebbero costituire, da un lato, una minaccia a livello planetario, a causa dell’eccesso di potere che stanno accentrando intorno alla loro conoscenza dei nostri dati. Ma dall’altro offrono la possibilità di disporre di dati inediti e in quantità sufficiente per operare analisi di problemi urgenti. L’ubicazione di una persona, il microclima di un vigneto o di una coltura di nocciole, il consumo di agrumi in un ospedale, il numero di tombini intasati in un comune, la risposta a determinati trattamenti su colture minacciate da parassiti, risposte a terapie antivirali su grande scala, sono moltissime le opzioni che la datizzazione consente; oggi è sufficiente  acquisire la quantità di informazioni necessarie e registrarle in una struttura, sia fisica che logica, in grado di memorizzarle per tutti gli usi che si desidererà farne.

Saremo sommersi dalle informazioni, ma con i Big Data, è opportuno anticiparlo, potremo prevedere cosa accadrà ma non perché. Ma in moltissimi casi sarà più che sufficiente. Infatti la procedura deduttiva, caratteristica del metodo scientifico attuale, oggi è messa alla prova dalla disponibilità di una mole enorme di dati molto diversi per natura, struttura e «veridicità», al contrario di dati con un volume più ridotto ma ben strutturati e convalidati che provengono dalle sperimentazioni. La procedura scientifica contemporanea si basa essenzialmente su una serie di tappe successive, come provano la storia della scoperta del pianeta Nettuno da parte di Le Verrier o, più vicino a noi, quella del bosone di Higgs; l’osservazione di un fenomeno genera un interrogativo che porta a sviluppare una o più teorie miranti a spiegarlo. La loro sperimentazione si compie in seguito attraverso previsioni che sono confrontate ai risultati di esperimenti chiamati a convalidarle o meno.

Una rottura in questa procedura si verifica oggi con la disponibilità diretta e immediata di “dati in massa”, i Big Data, non più derivanti da esperimenti ma da situazioni incontrate nella vita corrente.

Di conseguenza, in alcuni campi come le scienze umane e sociali in cui le causalità sono meno categoriche ma anche in cui il volume di dati è più elevato, si sta assistendo al rapido sviluppo di una nuova procedura che consiste nel cercare correlazioni tra questi dati per evidenziare dei legami tra fenomeni o comportamenti. Per esempio, si può citare il monitoraggio delle pandemie in funzione delle ricerche fatte su internet legate a malattie, la previsione immediata del tasso di disoccupazione basata sull’analisi dei tweet o ancora il controllo della mobilità giornaliera delle persone che provengono dalle percentuali di utilizzo delle reti di telefonia mobile o da altri tipi di sensori.

Tutto ciò consente di rivisitare le informazioni in modo completamente innovativo mettendoci in grado di scoprire che un ponte ha cedimenti strutturali non solo in base, al carico ma anche rispetto al calore e a un certo tipo di microclima; o che un motore tende a usurarsi anche in base alla quantità di calore o alla dimensione delle vibrazioni che produce.

Questo cambiamento quantitativo nello stoccaggio e nella correlazione dei dati ne ha ormai prodotto uno qualitativo.

Si deve ai programmi di ricerca dell’astronomia e a quello sul Genoma umano, che all’inizio degli anni 2000 hanno dovuto misurarsi per primi con enormi incrementi di dati rispetto al passato, l’espressione Big Data. Infatti, si era giunti in quegli anni alla conclusione che il volume delle informazioni fosse cresciuto in maniera tale da non poter essere più trattato dalle memorie dei sistemi informatici allora disponibili, per cui i tecnici avrebbero dovuto operarsi per superare questo limite fisico, ma di fatto anche logico, anteponendo la soluzione di questo problema a tutti gli altri allora presenti nel panorama informatico. La fase di reingegnerizzazione degli strumenti di calcolo e di analisi subì un enorme impulso, sia in termini finanziari, sia nell’impiego di specialisti. E dal 2003 le tappe di questo processo si sono succedute a un ritmo inaspettato e con risultati sorprendenti.

Oggi l’espressione Big Data si riferisce ad attività e operazioni che si possono fare soltanto su larga scala; il fine è quello di potere estrapolare da tutti questi dati nuove indicazioni, informazioni e ottenere nuove forme di valore che stanno modificando i mercati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e istituzioni. Questa nuova realtà è in grado di modificare il nostro modo di vivere e di interagire con il mondo. Infatti, come abbiamo già sottolineato, si inaugura un nuovo approccio ai problemi che non comprende solamente la causalità come strumento esplicativo ma le relazioni e correlazioni, che assumeranno una rinnovata centralità nell’ordine della ricerca delle cause di molti fenomeni; non ci si dovrà solo chiedere perché ma che cosa.

È possibile che questo nuovo approccio all’uso e alla interpretazione dei dati, modifichi diversi aspetti riguardo prassi consolidate nell’ambito della ricerca scientifica e sociale, nell’analisi e nell’azione politica, nella scienza del management e nella cultura in generale.

1 thoughts on “I Big data: la “datizzazione” del mondo. – di Fiorello Casi”

  1. I Big Data, a mio parere, sono divenuti molto più importanti di un bene che , in economia, è sempre stato importante: il petrolio. Oggi, ogni volta che telefoniamo, utilizziamo carte di credito o scarichiamo le app dal nostro telefonino (che così non si chiama più!), forniamo una miriade di informazioni, più o meno inconsciamente, che vengono trattate dagli algoritmi.
    Viviamo perennemente connessi in ogni aspetto della nostra vita, generando una quantità abnorme di dati; si pensi che Google ha affermato che, ogni due giorni, accumuliamo una tale mole di dati pari o superiore a quelli raccolti dall’alba della civiltà al 2003 ed essi, vengono analizzati ad una velocità tale che era impensabile fino a qualche anno fà. In tutti i mercati non c’è settore in cui il marketing ne possa fare a meno.
    Guardiamo il Web: i nostri dati di navigazione vengono captati da siti quali Netfix o Amazon che, capendo le nostre preferenze, sono in grado di pilotarci nella direzione di un acquisto piuttosto che un’altro.
    E’ interessante notare che da una lettura così sofisticata dei Big Data, è possibile anche produrre delle associazioni molto particolari, ad esempio, da studi effettuati sui data mining svolti da società che emettono carte di credito, si è appurato che chi acquista determinate componenti per i mobili d’arredo può essere ritenuto una persona affidabile e un cliente a basso rischio finanziario.
    Vi sono ambiti in cui i Big Data sono usatissimi e molto importanti, come ad esempio l’industria della pubblicità, dove vengono utilizzati per raffinare strategie che hanno il compito di personalizzare il messaggio pubblicitario, ideare campagne mirate all’acquisizione e fidelizzare, recuperare, clienti che si erano allontanati.
    L’utilizzo dei dati potrebbe produrre anche idee intelligenti, non soltanto nefaste per l’uomo: ad esempio, utilizzare in maniera intelligente, emozionale e coinvolgente i dati sulle abitudini di ascolto dei clienti creando anche uno spazio dove l’utente esprime un parere. E’ il caso dell’idea creativa che si è sviluppata tramite una vera recensione di Amazon dove, noi dopo aver eseguito un acquisto, valutiamo la qualità del servizio offerto. In alcune realtà, i nostri commenti, sono stati tradotti in una sorta di “cortometraggio”, ad esempio, si parla di spot dove un papà che ha acquistato uno skateboard al proprio figlio, non ha resistito a provarlo e si è mostrato soddisfatto.
    Una buona comunicazione, indubbiamente, ci ricopre di una potenza emotiva rassicurante ed è per questo che sarebbe bene unirla a un utilizzo corretto dei Big Data. Questa tendenza dovrebbe essere centrale nell’era dei social, ai fini di rendere il cliente-consumatore, un soggetto attivo, un protagonista, facendo sì che qualcosa in più proprio su di noi possiamo raccontare: la nostra storytelling.

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