Eutanasia. La risposta di Filippo Anelli, presidente Fnomceo, a Maurizio Mori

Eutanasia. Anelli (Fnomceo): “Non si può restare insensibili di fronte

alla richiesta di porre fine alle proprie sofferenze. Ma va sempre

garantita la possibilità di obiezione di coscienza”

Il medico, con il suo paradigma ed il suo bagaglio di valori, vuole rappresentare in questa nostra società colui che attraverso l’empatia e il rapporto umano e di fiducia che lo lega al paziente che lo sceglie, riesce a garantire i diritti previsti dalla nostra Carta Costituzionale: il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione. Garantire tutto ciò senza sovvertire l’assetto valoriale dell’essere medico è la sfida che coinvolge non solo la professione medica, ma tutte le professioni sanitarie e la società civile.

24 APR – Gentile Direttore,
le scrivo a seguito della bella lettera del professor Mori sul suicidio assistito in cui si chiede di comprendere la posizione della Fnomceo su tale tema. Si tratta di un argomento posto all’attenzione del Parlamento dalla Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sulla legittimità dell’art. 580 del Codice penale, che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio, al fine di stimolare “
ogni opportuna riflessione e iniziativa”.
 
Un tema di così straordinario interesse non può essere ridotto, come spesso avviene, ad una banale contrapposizione tra favorevoli e contrari, oppure essere condizionato da convincimenti ideologici o di appartenenza politica.
 
Il dibattito sul suicidio assistito investe direttamente la professione medica che, nel rispetto della libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità del medico, ha il compito di tutelare la dignità di ogni essere umano fornendo ogni possibile risposta alle sue sofferenze, nel rispetto del diritto all’autodeterminazione.

Per questo considero il dialogo su questo argomento utile e necessario. Credo che debba essere scevro da pregiudiziali ideologiche o politiche, e animato solo da sensibilità intellettuale e disponibilità a comprendere sino in fondo le ragioni di determinate scelte. Ma, anche dalla volontà di valutare fino in fondo le possibili conseguenze del cambiamento del paradigma – quello che vede la malattia come il male e la morte come il nemico da sconfiggere – che sinora ha caratterizzato l’esercizio della professione medica.
 
Questo dibattito per noi medici significa apertura alle ragioni dell’altro e volontà di modificare le proprie se le argomentazioni utilizzate risultassero appropriate e convincenti.
 
La Corte Costituzionale nella sua Ordinanza rileva come il divieto all’istigazione o all’aiuto al suicidio “conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimuovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)”.
 
La Corte, in sintesi, limita l’intervento solo a “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali. Il riferimento è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
 
Abbiamo quindi a che fare con situazioni particolari, a cui oggi la scienza medica è in grado di fornire una risposta attraverso le cure palliative e nei casi richiesti utilizzando la sedazione profonda, al fine di ridurre le sofferenze e salvaguardare la dignità della persona.
 
Si tratta a questo punto di esaminare il caso in cui il malato rifiuti tali cure – diritto sancito dall’articolo 32 della Costituzione e recepito dalla Legge 219/2017 – e chieda, in ragione della propria idea di dignità della persona, la morte come strumento per liberarlo dalle sofferenze.
 
Entro lo specifico ambito considerato”, rileva la Corte, “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”.
 
Secondo il Codice di Deontologia Medica, ultimo comma dell’art. 16, “il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte”. Una prescrizione che diventa ancor più esplicita al successivo articolo 17: “il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”.
 
Un divieto che troviamo presente sin dal IV secolo a.C. nel cosiddetto “Giuramento di Ippocrate”: “non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio”.
 
Questo modo di esercitare la medicina da oltre 2400 anni, ininterrottamente, considera la morte un’avversaria e non uno strumento per liberare l’uomo dalle sofferenze. Il modo di essere medico, la ricerca, lo sviluppo delle cure e dei trattamenti rispondono a questo paradigma: ridurre le sofferenze e allungare la vita, migliorare la sopravvivenza.
 
Questo divieto nei secoli ha protetto l’individuo e la stessa professione medica da degenerazioni o utilizzo improprio della professione, talora assoggettata al volere dei potenti o della politica. Penso, ad esempio, all’eugenetica e alla ricerca della purezza della razza della Germania nazista che vedeva l’uomo completamente asservito a quel “potere medico” e allo stesso tempo “politico”.
 
I principi presenti nel Codice Deontologico rappresentano così una ricchezza e un patrimonio culturale e di valori da tutelare. Tra questi anche l’articolo 22 del Codice che prevede la possibilità che il medico possa “rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici”.
 
Un principio sancito anche dalla Legge 219/2017 – articolo 1, comma 6 – ove il rispetto dell’autodeterminazione del paziente: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”, si coniuga con l’obbligo da parte del cittadino di rispettare il medico e le sue convinzioni scientifiche e deontologiche: “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali“.
 
È necessario salvaguardare sempre il principio del primato della coscienza che deve essere garantito a tutti i cittadini, medici compresi. Anche la Corte nella sua Ordinanza reputa necessaria “la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura”.
 
Tuttavia, oggi la professione attraversa una crisi, legata alle trasformazioni sociali e culturali della nostra società, che necessita per essere risolta in senso positivo di una ridefinizione del ruolo medico per meglio rappresentare il compito di garante del diritto alla salute che la Costituzione affida anche alla nostra professione. Una ridefinizione complessa e profonda in una società che influenza con la sua cultura, la sua visione morale, le sue conoscenze scientifiche ed economiche il modo di essere medico e dunque il rapporto medico – paziente, il modo di intendere la malattia e ciò che è giusto e necessario scegliere per il bene della persona. Ridefinire il ruolo del medico significa ridefinire anche la relazione tra medicina e società.
 
Per questa ragione abbiamo indetto gli Stati Generali della Professione Medica che rappresentano un lungo percorso di confronto e approfondimento del ruolo del medico e dei principi che ne ispirano l’attività al fine di giungere alla redazione di un documento che rappresenti il presupposto per la modifica dell’attuale Codice di Deontologia Medica, approvato nel 2014.
 
Il medico, con il suo paradigma ed il suo bagaglio di valori, vuole rappresentare in questa nostra società colui che attraverso l’empatia e il rapporto umano e di fiducia che lo lega al paziente che lo sceglie, riesce a garantire i diritti previsti dalla nostra Carta Costituzionale: il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione. Garantire tutto ciò senza sovvertire l’assetto valoriale dell’essere medico è la sfida che coinvolge non solo la professione medica, ma tutte le professioni sanitarie e la società civile.
 
Si tratta di comprendere cosa la società si aspetta dal nostro essere medico, da quello che noi da sempre siamo, per garantire la dignità di ogni persona e i suoi diritti.
 
Per queste ragioni non si può restare insensibili di fronte alla richiesta della persona di porre fine alle proprie sofferenze, pur rifiutando le cure mediche. La nuova deontologia medica, così come nel passato, non potrà che essere coerente con i principi stabiliti dalla nostra Carta Costituzionale.
 
Filippo Anelli
Presidente Fnomceo

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