Esiste un diritto alle origini dei nati da fecondazione eterologa? Roberta Scalise

Nell’ambito di una serie di incontri, denominata Bioethical Club, organizzati a Torino dalla Consulta di Bioetica onlus, il 2 ottobre 2017 si è discusso di: fecondazione eterologa, anonimato e diritto alle origini dei nati da fecondazione eterologa.

Hanno presentato l’argomento Ludovica Poli e Gianluca Gennarelli.

Donazioni di seme, di ovociti o di embrioni: sono fenomeni che, secondo i dati relativi al 2012 e raccolti in 34 paesi europei, stanno crescendo vertiginosamente negli ultimi anni, e non solo in Europa. Complice anche, e soprattutto – per quanto riguarda, in particolare, le inseminazioni – l’aumento progressivo dell’età della donna alla ricerca del primo figlio, giunta a una crescita di 3,7 anni al primo parto. Oggi, infatti, in Italia, un terzo delle donne che si rivolgono a un centro di ART – Assisted Reproductive Technologies – ha un’età media di 40, o più, anni.

Ancora nel 2014, 237 coppie hanno fatto ricorso, nel nostro paese, alla donazione di gameti, 94 sono state le gravidanze ottenute, 50 i parti portati a termine e 62 i bambini nati vivi. Queste cifre, nei due anni successivi, sono aumentate per via della sentenza della Corte Costituzionale e di un atteggiamento maggiormente favorevole alla disclosure al momento del ricovero per il parto.

Ma questi sono solo dati. Il problema etico che vi soggiace – e che è emerso nel corso dell’incontro bimestrale del Bioethical Club – riguarderebbe, infatti, un presunto diritto morale del nato a conoscere le proprie origini biologiche. In generale, nella comunità medica – che pratica effettivamente la fecondazione eterologa – gli aspetti a favore di una potenziale rimozione dell’anonimato sono due: da un lato, la protezione della salute clinica del nato (conoscere le proprie origini genetiche potrebbe, infatti, aiutare ad adottare comportamenti preventivi); dall’altro, la presa d’atto che, allo stato attuale dell’evoluzione della bioingegneria e delle tecnologie di analisi genetica, sarà, in breve tempo, impossibile preservare del tutto tale tipo di anonimato.

Dal punto di vista morale, i bioeticisti, oltre a tenere in alta considerazione la salute fisica del nato da fecondazione eterologa, sostengono anche che una rimozione dell’anonimato possa garantire la realizzazione di legami familiari forti e sinceri e la costruzione di una robusta identità personale. Negare la conoscenza delle proprie origini, infatti, porterebbe a una relazione familiare incompleta, se non patologica, fondamentale per la formazione di un adulto indipendente. Senza considerare che il nato potrebbe venire a conoscenza della verità per vie traverse (la maggioranza di coloro che ricorrono alla donazione di gameti lo riferiscono ad almeno una persona estranea alla coppia). Alta, inoltre, la preoccupazione nei confronti delle potenziali conseguenze psicologiche.

Ancora una volta, vengono in soccorso le evidenze, le quali rivelano che i legami affettivi tra i genitori “adottivi” e i propri figli non siano molto differenti da quelli biologici, così come nel caso dei nuclei che hanno mantenuto l’anonimato rispetto a quelli che non lo hanno preservato.

Il problema nodale, quindi, è: dire o non dire? Rivelare l’identità del donatore o mantenere il silenzio? Conoscere quest’ultimo può modificare l’identità e l’essenza di una persona?

Le opinioni sono contrastanti: alcuni individui concepiti con donazione di gameti hanno effettivamente riferito un senso di perdita, la mancanza di appartenenza, l’impossibilità di comprendere se stessi e il proprio senso nella vita, perché privi della nozione delle proprie origini biologiche. Il termine usato in questo caso è geneticessentialism, ossia il considerarsi alla stregua di un complesso di geni. Ma c’è un rischio: esso, infatti, secondo molti, potrebbe condurre alla naturale conseguenza di considerare le famiglie biologiche come famiglie di serie A, portando a esiti controproducenti per i nati da donazione di gameti e le loro famiglie adottive. Alcune di queste ultime, infatti, potrebbero sentirsi minacciate dalla svelata identità di un donatore caratterizzato da legami genetici con il proprio figlio.

Un altro caso da considerare è, infine, quello dei donatori desiderosi di conoscere la propria progenie: l’interesse più grande risiede nel numero di concepiti, nella loro salute e in un’eventuale somiglianza. Sorge, però, qui, spontaneo un dubbio: se donare è un atto di beneficenza, e chi fa beneficenza, nella maggior parte delle volte, opera – e, spesso, addirittura lo brama – nell’anonimato, senza ostentare la propria identità, perché dovrebbe farlo un donatore di gameti?

Da qualsiasi punto di vista la si osservi, è una partita che, in definitiva, si gioca sul terreno del relativismo e del libero arbitrio genitoriale: così come ogni nucleo familiare è libero di scegliere quale educazione impartire ai propri figli – religione, alimentazione, usi e costumi –, anche il diritto alla conoscenza del proprio ascendente biologico dovrebbe rientrare nel vasto e complesso campo di possibilità con cui crescere i nati, assecondandone il desiderio, se mai si presentasse, che sia per il tempo di un’ora, di una giornata o di una vita intera.