Cronache dal Convegno “Definire la morte: storia, attualità e prospettive”. Roberta Scalise

Definire la morte è stato il tema di un Convegno a più voci, patrocinato da ASL Città di Torino, Consulta di Bioetica Onlus e Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino, presso l’Aula Magna del Campus Luigi Einaudi di Torino

Definire la morte non è mai stato così difficile: lo sanno bene i relatori che sono intervenuti in occasione del Convegno tenutosi presso l’Aula Magna del Campus Luigi Einaudi nel corso di tutta la giornata di sabato 14 ottobre 2017.

A dare il proprio contributo, non solo clinici, ma anche giuristi e, soprattutto, filosofi e bioeticisti. “Perché un convegno che riunisce filosofi e medici? Perché i problemi riguardanti la morte non sono più solo tecnici, ma coinvolgono aspetti più ampi. E la filosofia copre molti ambiti, spesso sottovalutati dai clinici stessi”, ha spiegato Sergio Livigni, direttore del reparto Anestesia e Rianimazione dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino.

Quello che si è tenuto sabato scorso, inoltre, è stato, in Italia, il primo convegno di carattere culturale a proposito della definizione di morte, un’anticipazione di ciò che sarà esposto il prossimo anno in occasione dei 50 anni dalla prima occorrenza del termine “bioetica”.

Si tratta qui di indagare le diverse definizioni di morte, al plurale”, ha precisato Maurizio Mori, ordinario di Bioetica presso l’Università degli Studi di Torino e presidente della Consulta di Bioetica Onlus, “un concetto che crea spaesamento, perché siamo da sempre convinti che la morte sia un fenomeno sicuro. Le differenti definizioni di essa, invece, sono date in base a criteri di rilevanza che cambiano nel corso del tempo e ci fanno cogliere solo alcuni aspetti dell’oggetto preso in considerazione”. “Tra di esse”, ha continuato il Professore, “se ne annoverano principalmente tre: 1) morte biologica, che richiede la morte di tutto il corpo, e per accertare la quale si deve attendere la putrefazione; 2) morte cardiaca, in cui compare un centro critico, il cuore, che presiede alla totalità dell’organismo: qui, muore il corpo come un tutto, anche se restano attivi dei residui vitali in seguito. Con la morte cardiaca si dissolve il tripode vitale, che comprende il cervello (il primo a morire), i polmoni (che, dunque, non ricevono più impulsi) e il cuore, l’ultimo a decedere, in seguito alla cessazione dell’attività respiratoria. Si tratta, dunque, di una morte poliorganica, messa in crisi dall’avvento della rianimazione e da una nuova definizione, quella di 3) morte cerebrale, presentata nel 1968 come perfezionamento della precedente. Essa, però, implica una concezione differente dell’organismo e, a causa della struttura composta del cervello, sottintende tre distinzioni: a) morte totale, di tutte le parti dello stesso (la whole-brain death); b) morte tronco-encefalica (lower-brain death) e c) morte corticale (higher-brain death). In ogni caso, la morte è un processo graduale, un tunnel nel corso del quale vi sono molte fasi diverse”.

Morte, quindi, come evoluzione di stati, come “serie di eventi che giungono, poi, a conclusione, fino a un fenomeno irreversibile”, con le parole di Nereo Zamperetti, UOC Terapia del dolore, ULSS 8 Berica, Vicenza. “Ma il termine “irreversibile” è da intendere in senso forte o in senso debole? Di fronte alla morte”, ha continuato, “ci sono poche cose certe; tra queste: l’ipossia, ossia l’assenza di ossigeno nelle cellule miocardiche, indipendentemente dalla causa che l’ha provocata. Le conseguenze di essa possono colpire poi, in diversa misura, cervello e cuore. In questi casi, le persone che possono essere rianimate sono, dunque, potenzialmente sia vive, sia morte. In tali condizioni, abbiamo le cosiddette “subsituations”, ossia situazioni non ben definite che dipendono anche dalle nostre decisioni morali: sono momenti in cui è importante guardare soprattutto alla storia dei pazienti”.

Fautore di un pluralismo democratico al riguardo anche Robert M. Veatch, professore emerito di Etica medica presso il Kennedy Institute of Ethics della Georgetown University, Washington, DC. Egli, infatti, afferma che “non c’è un criterio scientifico per sostenere l’una o l’altra definizione di morte. Quindi, ognuno di noi dovrebbe essere libero di sceglierne una propria, in base alle sue convinzioni filosofiche e religiose, e, se una persona non è in grado di farlo, dovrebbe essere lo Stato a operare questa scelta”. Una proposta che appare, pertanto, più politica che filosofica. Anche se, come ha affermato Nicola Latronico, ordinario di Anestesia e Rianimazione all’Università degli Studi di Brescia, a conclusione del suo excursus sulla definizione di morte encefalica, “si è giunti ora a un “boiling pot”: sebbene la morte cerebrale sia considerata legale in tutti gli Stati Uniti e nel resto del mondo, ancora molti fanno coincidere la morte con l’arresto cardiaco”.

In ogni caso, avanzare delle definizioni è un’operazione delicata, come ha ricordato Lucia Busatta, appartenente al Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell’Università di Padova. Infatti, “le definizioni sono il punto di partenza del diritto, ma sono pericolose, perché sono contestuali e possono essere sovvertite, e devono presentare un ampio margine di oggettività e discrezionalità e rispondere ai principi di autodeterminazione e pluralismo culturale”. “Dal punto di vista giuridico”, ha continuato, “la morte è enunciata in modo molto ampio, ma è di fondamentale importanza soprattutto per le questioni legate alle successioni, alla mancata sopravvivenza di una persona fisica con poteri giuridici, che, dunque, decadono, e al problema dei trapianti”.

Nel pomeriggio, infine, la discussione – soprattutto nel corso della tavola rotonda presieduta dalla professoressa Maria Teresa Busca – si è animata e concentrata intorno al problema del lasso di tempo, dedicato all’osservazione, che segue la morte di un paziente, in particolar modo nel caso in cui questo sia destinato a divenire donatore di organi: a tal proposito, Pablo de Lora, ordinario di Bioetica e Filosofia del diritto presso l’Universidad Autònoma de Madrid, ha ricordato la cosiddetta “dead donor rule” – secondo la quale si devono prelevare organi solo da cadaveri –, affermando che “la morte è un’opinione: essa si può accostare a un fatto bruto?”. Tutti i relatori, tuttavia, erano concordi nell’affermare che 20 minuti di tanatogramma appaiano essere troppi. Sarebbe necessario, dunque, individuare delle reali basi scientifiche (dal momento che sfuggono quelle che sono alla base dei 20 minuti attuali) e, anche, scegliere “un momento in cui il processo del morire sia davvero irreversibile e stabilizzato”, come ha dichiarato Francesco Procaccio, dell’Istituto Superiore di Sanità del Centro Nazionale Trapianti, per proporre una modifica della norma vigente e ridurre il tempo del monitoraggio, in modo tale da evitare anche che gli organi subiscano danni ingenti e non siano, quindi, più utili al trapianto richiesto.