Complessità e datizzazione (prima parte) – di Fiorello Casi

Si deve partire dalla realtà per iniziare il percorso di avvicinamento e comprensione al tema contemporaneo dei Big Data e di come questi ultimi derivino e traggano la loro ragione di essere gli ultimi protagonisti, in ordine cronologico, di un processo volto alla comprensione e interpretazione del reale.

Il concetto di realtà, da sempre, ha posto e pone problemi nodali, sia alla scienza, sia alla filosofia e, soprattutto a quest’ultima, riguardo l’indagine sull’essere.

La comprensione della realtà nell’ambito di un mondo formato da infiniti fenomeni, sin dalle origini, è stata una sfida alla comprensione della complessità dell’universo mondo.

Il tentativo di cogliere il concetto di realtà è un’attività umana millenaria che continua immutata sino a noi. Le strade intraprese nel corso dei secoli sono state, sia diverse, sia diversificate, ma tutte miravano a coglierne il funzionamento, cercando risposte adeguate a domande circa le attività pratiche e astratte che fatalmente sorgono nel nostro “essere nel mondo.”

Non è certo l’intenzione di questo articolo procedere a un excursus puntuale sulle tappe del sapere; una impresa a dir poco presuntuosa e improba. Tuttavia riteniamo che una ricognizione sul percorso, che conduce dall’affermarsi del pensiero scientifico classico a quello attuale, caratterizzato dalla ricerca di formalizzazione di una vera e propria scienza della complessità, sia propedeutico e preliminare alla descrizione e all’analisi della cosmogonia del mondo contemporaneo. Infatti si avrà modo di sottolineare più volte che, essendo la combinazione dei fenomeni a costituire il mondo, questa ricerca circa la complessità cammina a fianco della volontà di poter delineare in modo altrettanto puntuale, una scienza dei dati.

A partire dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo, ma con un illustre predecessore quale Aristotele, e dai suoi rappresentanti più noti, Francesco Bacone, Cartesio e Galileo, con Newton, si stabilisce definitivamente il concetto secondo il quale è l’esperienza il solo modo per avvicinarsi alla comprensione della realtà. Le “sensate esperienze” e le “certe dimostrazioni” sono l’unica via per arrivare alla verità, congiuntamente alla verifica, tramite esperimenti, delle ipotesi teoriche su qualsiasi fenomeno fisico. È in questa circostanza che la quantificazione del mondo subisce una nuova spinta propulsiva che inizia a depotenziare la metafisica. A questo riguardo una risposta emblematica può riferirsi alla posizione di Einstein che sui rapporti tra la ricerca in fisica e in filosofia dimostrò di avere una posizione molto netta e chiara:

“Il fisico non può lasciare al filosofo la considerazione critica dei fondamenti teorici; perché è proprio lui che sa meglio di tutti e percepisce con maggiore precisione che cosa non vada. Nel cercare dei fondamenti nuovi, egli deve tentare di chiarirsi fino a che punto i concetti da lui adoperati siano giustificati e necessari”.

La citazione è tratta da un contesto in cui Einstein riprende la questione dei fondamenti della conoscenza umana, e pone quindi nuovamente il problema cartesiano del rapporto tra la mente e mondo esterno e il problema dell’origine delle idee in un’ottica che tiene presente, con continuità, sia Locke che Leibniz. Einstein, in diversi scritti circa questo argomento, ha come interlocutori filosofici Cartesio, Locke e Leibniz; in altre sedi Spinoza, e naturalmente Galilei e Newton, a cui si aggiunge a volte Kant, di cui però nega l’a-priori; ed eccetto quest’ultimo, si tratta di filosofi del Seicento. Su quelli che lui definisce “fondamenti teorici” la filosofia successiva a questo periodo non compare quasi mai, e così anche quella precedente, mentre ai suoi occhi la fisica dell’Ottocento si ricollega direttamente alla ricerca filosofica e fisica dell’età di Newton. Dai suoi scritti si può ipotizzare che siano proprio i filosofi del Seicento gli interlocutori privilegiati sulla specifica e decisiva questione dei fondamenti. Ma non è certo un fatto del quale meravigliarsi; infatti nonostante oggi si sia portati a distinguere gli scienziati dai filosofi tra i pensatori che abbiamo citato, questa distinzione non appartiene certo al Seicento. Il termine filosofia è comunemente applicato alla ricerca sulla natura, come nell’opera di Newton “Principi matematici della filosofia naturale”, cioè su quella che oggi chiamiamo semplicemente fisica. Lo stesso può dirsi del “Discorso sul metodo” che non fu concepito da Cartesio come un’opera indipendente, ma che fu pubblicato come introduzione a tre trattati scientifici. L’avvio di questo processo è chiaro: filosofi e scienziati nel Seicento non distinguevano nelle loro ricerche tra filosofia e scienze della natura perché tutti miravano a un solo obiettivo, la scoperta delle leggi della natura mediante l’uso del pensiero razionale, secondo metodi codificati e utilizzabili da chiunque nella comunità scientifica internazionale del tempo, metodi che costituivano la principale preoccupazione di quei tempi. Nel Seicento la radicale distinzione, data oggi per scontata, tra metafisica e fisica non era ancora posta nei termini in cui viene posta attualmente; scienziati e filosofi miravano alla conoscenza della verità e i fondamenti teorici costituivano un elemento imprescindibile della comprensione della realtà. Dal Seicento la scienza rifiuta del tutto le costruzioni metafisiche tradizionali e, in questo senso, sia Galilei, sia Newton rifiutano la metafisica. Ma la stessa cosa faranno i filosofi. Bacone e Cartesio, come gli altri, attraverso metodi e forme peculiari, dichiarano esplicitamente la volontà di ricominciare da zero, e se la storia della filosofia segnala in moltissimi punti la loro dipendenza dal passato, si pensi, per esempio, alle tracce residuali della Scolastica in Cartesio, questo non diminuisce la loro determinazione nel non considerare la metafisica come protagonista di questo nuovo corso, sottoponendo ogni cosa al vaglio inesorabile della ragione.

Con l’Illuminismo questo processo assume la forma di una vera rivoluzione; la Ragione assume la posizione centrale nella interpretazione del mondo e diviene lo strumento più accreditato (insieme all’arte) che consenta di accedere al sapere, facendo tabula rasa di superstizioni, dubbi e credenze fallaci; e il pensiero scolastico, caratterizzato soprattutto dall’aristotelismo interpretato da Tommaso D’Aquino, non occupa più il centro delle attività scientifiche. Si afferma stabilmente l’universo newtoniano, con le leggi e i suoi principi relativi alla meccanica dei corpi, sia celesti che terreni; ora la scienza considera e vede il mondo come un contenitore ben ordinato e comprensibile attraverso le formule. La lettura dei fenomeni che la scienza classica fa del mondo è caratterizzata dall’oggettività, dalla linearità, dalla reversibilità e dal riduzionismo; quest’ultimo è ciò che in epistemologia, rispetto a qualsiasi scienza, sostiene che gli enti, le metodologie o i concetti di tale scienza debbano essere ridotti al minimo sufficiente a spiegare i fatti della teoria in questione. In questo senso il riduzionismo può essere anche inteso come un’applicazione del rasoio di Occam. Il mondo che ci presenta la scienza classica è quindi sostanzialmente semplificabile, deterministico; un grande contenitore tridimensionale al cui interno i soli limiti alla conoscenza sono dettati dal grado di comprensione che gli uomini riescono, tramite un progresso epistemologico, a raggiungere. Secondo il sistema newtoniano il sapere avrebbe così solo limiti dettati dalla scarsa conoscenza ma non ontologici; con il giusto metodo e le risorse intellettive adeguate tutto può essere spiegato e compreso all’interno dello spazio e del tempo.

Questo stato delle cose si protrae sostanzialmente immutato fino al XIX secolo quando i comportamenti non lineari, non aderenti a un modello esplicativo formale erano considerati eccezioni che, con conoscenze maggiori, sarebbero rientrati in una spiegazione lineare. Il Positivismo, adagiato completamente sulla potenza della ragione, della scienza e del progresso tecnologico, aveva addirittura ipotizzato di razionalizzare anche le dinamiche sociali, intellettualizzando e applicando i criteri scientifici alla società. Auguste Comte, nel suo “Corso di filosofia positiva”, affermava: “Scienza, dunque predizione; predizione, dunque azione”. Ma la situazione da lì a poco cominciò a farsi meno granitica al riguardo; progressivamente nel corso di questo secolo si cominciarono ad aprire delle brecce sull’applicazione di questo modello esatto dal quale via via i sistemi complessi e le loro caratteristiche di molteplicità osservate e studiate sfuggivano da questa unica chiave di lettura.